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Musica

Gianna come Vangelis

Chi si ricorda degli esperimenti della Nannini come autrice di colonne sonore? Nessuno, a quanto pare, nemmeno lei.

"Poi c’erano stati quei mesi di pazzia, era il 1983, non sapevo più chi ero, mi si era fermata l’anima, il cervello era andato in tilt, ero tornata piccola. Per questo me ne frego dell’età, perché se sono rinata nel 1983 sono giovane" Gianna Nannini — intervista a Mamma PourFemme, 2011

Si parla da sempre di come il rock mainstream made in Italy non riesca a combinare poco o nulla all’estero, persino Vasco quando intraprende un tour all’estero lo fa per gli immigrati italiani—che sono sempre una signora cifra, per carità—ma una delle poche rockstar nostrane a cui riuscì un mezzo colpaccio è Gianna Nannini, che mantiene un alto grado di popolarità fra i giovani nonostante c'abbia una certa, e continua a collezionare dischi d’oro e platino. Nonostante la sua ultima uscita inedita sia un singolo scritto per la Carrà (per quanto sia assurdo è la verità), fino all’87 ha sbancato anche le classifiche europee Germania in testa scrivendo album di un certo spessore come Latin Lover e Puzzle, con musicisti e produttori della madonna ad ogni uscita, roba che se dovessi elencarli non entrerebbero nello schermo, da produttori come Dave Allen (Cure), Alan Moulder (Nine Inch Nails), Will Malone (Iron Maiden) a membri degli Einstürzende Neubauten.

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Ma se della discografia ufficiale bene o male ci ricordiamo tutti, esiste anche quella sotterranea che fa cultura a sé: oscura, quasi carbonara, basata sulle colonne sonore. Proprio da questo pozzo peschiamo il disco del nuovo Italian Folgorati, ovvero Sconcerto Rock, anno 1983. L’altro esemplare è per Sogno Di Una Notte D’Estate il primo film di Gabriele Salvatores, anche questa taciuta ai più e di cui parleremo tra un attimo.

Tale disco, che poi è un “mini album”, è appunto una colonna sonora per l’omonimo film semi-indipendente di Luciano Manuzzi, giovane reduce da ben due David di Donatello nell’82 per il controverso film Fuori Stagione. Dico "semi-indipendente" perché a produrlo è la Fiction di Bernando Bertolucci in persona, e il cast comprende nientepopodimeno che il grande poeta underground e attore romano Victor Cavallo come protagonista. La trama narra di una rete televisiva privata animata da tre giovani, chiamata Teleocchio, che rimane improvvisamente senza sponsor pubblicitari, sguazzando di conseguenza nella merda. I tre giovani lottano con caparbietà contro i pignoramenti e decidono di riprendere in diretta una “scena che dovrebbe simboleggiare la loro condizione”… e non vi racconto quale per ovvi motivi. Posso solo dire che, alla fine, la tv privata riuscirà ad ottenere addirittura la sigla inedita di Gianna Nannini, che appare in carne ed ossa per un breve cameo filosofico/immaginifico. Film molto raro da trovare, si inserisce in quel filone di commedie new wave del periodo tipo No Grazie, Il Caffè Mi Rende Nervoso di Lello Arena. Con la differenza che c’è molto nervosismo e disagio in più: partendo dalle manifestazioni contro la strage di Bologna del 1981 fino a un tentativo di rapimento a scopo estorsione, i personaggi sembrano non andare da nessuna parte in un’anarchia esistenziale quasi paradossale, guadagnandosi anche un VM14. Almeno a quanto ho ricavato dai pochi frammenti disponibili e dalla critica, a oggi non sono riuscito mai a trovarlo integrale.

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Ma torniamo al disco: qui la Nannini viene dritta dritta dal successo di Latin Lover, prodotto in terre crucche da quel geniaccio di Conny Plank, ottenendo un plauso pressoché unanime in patria e soprattutto all’estero, allontanandosi quindi dalle sfighe di Una Radura, il suo secondo disco. Stranamente, in questo EP non vi è traccia del team tedesco (in un sol colpo: Jacki Liebezeit dei Can, Annette Humpe degli Ideal, Hans Baar degli Hoelderlin e addirittura Annie Lennox, sua coinquilina dell'epoca, alle tastiere): l’unico che rimane al timone è il fedele Mauro Paoluzzi alla chitarra. Per il resto c’è Alan Goldberg, che ha messo le mani in dischi di mezzo mondo, tutti di artisti diversisimi fra loro (tra i quali Demetrio Stratos, Yes, Kirlian Camera, Cadmo), mentre gli altri collaboratori sono prevalentemente un misto di personaggi già presenti nelle sue produzioni pre-tedesche come Walter Calloni (PFM/Decibel /ecc) alla batteria e il bassista di Vasco Claudio Golinelli, ma affiancati a gente mai vista nei suoi dischi come Aldo Banfi ai synth, meglio conosciuto come Baffo Banfi, re dell’italo disco e mentore dei Biglietto Per L’Inferno. Completano la line-up Luciano Ninzatti dei Kano alla chitarra, e udite udite, Massimo Urbani al sax, cioè la crema del jazz romano. In questo parapiglia di nomi, lei si siede alla regia smanettando con un pianoforte e un Moog Liberation, il primo synth a tracolla in assoluto. E veniamo finalmente al risultato.

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Ovviamente Sconcerto Rock è pensato come una colonna sonora, ragion per cui l’impressione è di una strana jam session di improvvisazione new wave ma non necessariamente col film di fronte, anzi. È pur sempre musica che dovrà reggersi da sola una volta sul piatto: d’altronde il film parla di anime in pena senza una direzione, e quale modo migliore per commentarla? Nella prima traccia "Mongolfiera" fa capolino questo misto di elettronica alla Eno con attacchi di piano stile Ultravox, batteria serrata e un sacco di effettistica. Improvvisamente, ecco Urbani a dare al tutto un colore fumoso tra il funk bianco e il jazz nero, che esplodono in un ritornello pop squisitamente italiano. il secondo brano, "Uccelli", è il più elettronico del lotto: una marcia ossessiva di sintetizzatori con vocoder sognante. Roba attualissima, potrebbe ricordare un Walter Carlos che si accoppia con Laurie Anderson. "Uccelli" è un pezzo da ricordare per questa sua leggerezza solo apparente che in qualche modo sembra mutuata da Cacciapaglia, roba che potresti ascoltarla per ore senza alcun problema. Un loop che avrebbero potuto remixare gli Emeralds, a dirla tutta.

Invece no, Cacciapaglia non c’entra nulla ma sbuca dal retrobottega nel lato B: sua infatti la produzione di uno dei più bei pezzi di Gianna, ovvero “Ora". Registrato nell’81 e rimasto inedito fino a quel momento, esce dai cassetti per fare da punta di diamante di questo disco e vede l’aggiunta in formazione di Stefano Previsti alle tastiere (il geniale autore delle hit di Diana Est). Si torna alla canzone, con la mano pesante di Cacciapaglia a dare il giusto collante. Perfetto insieme di inno alla gioia da stadio e manifesto rock elettronico, fa strano che non si trovi in nessuna raccolta di hit della nostra pur superando di gran lunga le sue più recenti prove. Il disco termina con "Teleocchio", una reprise del primo brano ma in versione rearrangiata, con piano sottocoperta e chitarra pukeggiante a sostenere il solo di Urbani, più lirico che mai e davvero curioso in questa veste inedita fra il cool jazz e Martha & The Muffins. A dire il vero, il brano ruota tutto sul sax, sublime ma mai fuori genere, tempestato da white noise e effetti siderali per poi risolversi come nella prima versione in un giro pop dei più classici (giro di DO con sintetiche svirgolate orientali alla “China Girl “ di Iggy Pop).

Più che una colonna sonora , il disco sembra una prova della Nannini come produttrice di se stessa: di solito affiancata da pezzi grossi, qui fa quasi tutto da sola come sondando una possibile strada individuale, che poi non viene intrapresa, visto il successivo album, Puzzle. Prodotto ancora una volta in compagnia di Conny Plank ma attraversato da una grossa crisi depressivo/schizoide di cui forse questo EP è l’annuncio, cronaca di un principio di smarrimento. Tant’è che non verrà mai ristampato e/o citato nelle discografie se non di striscio. Stessa sorte avrà la successiva colonna sonora del film di Salvatores a nome di Mauro Pagani, col quale firma due interessanti pezzi (roba afro mediterran rock a tratti anticipatrice del Pagani / De André di Crueza De Ma quanto dei Litfiba) per un film in cui recita l’ennesimo cameo, nel ruolo di Titania, la regina della notte. Insomma, evidentemente all’epoca la Nannini era un cantiere a cielo aperto: un po’ come la Berlino piovosa che la animava e della quale nonostante tutto non è mai riuscita a superare l’aura ispirativa. Probabilmente perché, se come dice lei nel film “il sogno è sempre una partenza”, viverlo “Ora” è, ahimè, un arrivo definitivo.

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