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Musica

Stroboscopic Artefacts: cinque anni e sentirli tutti

Pochi anni che in realtà sono molti: storia di una label fondamentale per la scena techno come la conosciamo oggi, nelle parole del suo fondatore Luca "Lucy" Mortellaro

In altre epoche, cinque anni, nell'arco esistenziale di un artista o di una label, non erano davvero granché: bastavano appena per iniziare a farsi sentire, per capire quel era la propria strada. Nell'era accelerazionista, invece, sono un'eternità: il tempo in cui una corrente estetica può consumare tutte le sue premesse d'avanguardia, diventare istituzione, morire stantia e infine cristallizzarsi nella storia. Ci attraversa un periodo del genere e ne attraversa più o meno tutte le fasi può farlo guidando l'esercito, inseguendolo, popolandolo, o anche muovendosi in una maniera diagonale rispetto all'andamento della loro marcia accompagnandolo, seguendolo e distanizandosene a seconda dei momenti, sempre in una manera critica, intelligente e personale.

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È un po' questo il rapporto tra Stroboscopic Artefacts e la scena techno europea che conosciamo oggi, specialmente quella legata alla città in cui la label è nata, che è ovviamente Berlino. Presenterebbero vicendevolmente dei caratteri completamente diversi: se non gli aspetti più superficiali e conosciuti, quantomeno cambierebbe la sostanza carnosa di cui è fatta la scena, e le posizioni da cui il fondatore Luca Mortellaro AKA Lucy si è messo a osservarla sono state fondamentali per lo sviluppo della label. E lo stesso vale per i nomi che lo hanno accompagnato fin dall'inizio (Dadub, Xhin), accomunati da un idea progressiva e geometricamente spazialista della techno, con un'etica del lavoro che mette la creatività e la passione generativa al primo posto, uscendo spesso dai confini del dancefloor a patto che ci fosse una fittissima nebbia post-dub e ambientale a circondare il sentiero. Ora, all'alba del sesto anno, con una mostra retrospettiva che apre oggi, ci sono un sacco di cose da raccontare e riflessioni da fare: gli abbbiamo chiesto di metterle giù con noi, agurandogli cento di questi lustri.

Noisey: Iniziamo con la domanda più ovvia: com’è cambiato il panorama elettronico europeo da quando è nata la label e quanto è cambiata la label?
Luca Mortellaro: Il panorama moltissimo, il che è estremamanete percepibile in una città come Berlino. Il luogo in cui mi trovo influenza sempre tantissimo dove vado io artisticamente e dove va l’etichetta, e in questi cinque anni si è completamente rivoluzionata, è arrivata una quantità di gente assurda, i prezzi schizzano alle stelle e i club sono sempre più popolati da turisti… In generale, quando abbiamo cominciato c’era la sensazione di qualcosa di estremamente nuovo, nel senso della maniera in cui la techno stava iniziando a tornare, in cui quelli che sono stati posti chiave anche per noi (come il Berghain, dove abbiamo fatto uno showcase all’anno da quando esistiamo) si facevano catalizzatori di un suono con un estetica techno ma completamente diversa dalla techno degli anni Novanta, fondamentalmente. Veniva come una specie di contrapposizione a una situazione completamente stanca, tutto il discorso del click’n’pop e della minimal. Identifico tre fasi principali: una che è arrivata leggermente prima di quando abbiamo cominciato noi, quella in cui Il Berghain e Ostgut hanno rimesso in moto un genere che era addormentato da tempo, con una certa passione, set maratonici, sound diverso… A quella è seguita la fase in cui identifico Stroboscopic: oltre a quell’approccio estremamente—in realtà—purista si sono sviluppate tutta una serie di situazioni come noi, Sandwell District e, per un momento, anche Prologue, che hanno allargato gli orizzonti rispetto a quell’ambiente purista e anche un po’ minimaloide.

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In che senso minimaloide?
Se senti i primissimi dischi che hanno fatto si che la techno venisse apprezzata da un pubblico vasto come oggi, come le prime collaborazioni tra Klock e Dettmann, il suono estremamente minimalistico. Quello che abbiamo fatto noi e altri è esplorare la dimensione laterale, non strettamente legata al danceflloor ma anche a quello che ci sta intorno. Ovvero, quali sono gli elementi che ti fanno riconoscere una certa estetica per quella certa estetica? Non solo kick drum e hi-hat. Intorno c’è tutta una serie di cose a cui abbiamo cercato di dare estrema importanza, dipende anche dal fatto che le origini mie come label manager non sono legate alla techno ma sono in un altro ambito: quello della musica ambient e sperimentale. Mi sono approcciato alla techno molto più in là, mentre quelli della prima fase erano cresciuti a pane e techno. Io sono cresciuto a pane e Brian Eno, hehehe.

Siete stati subito perfettamente consapevoli che era questo che volevate fare?
No, assolutamente, l’ho capito io col senno di poi. Sul momento, e questa è stata la bellezza di questi cinque anni, è che quando sei lì a organizzare cose, pianificare il prossimo anno dell’etichetta, lo fai in una specie di stato di trance, non sei così consapevole delle dinamiche che ci stanno intorno. Fai qualcosa le cose nella maniera più sincera e onesta con te stesso che puoi fare. Alla fine dei conti, se mantieni quella onestà, il prodotto verrà sempre originale. Non voglio dire la frase “non vai a compromessi” perché è una stupidaggine adoelscenziale, ma che capisci la differenza tra compromesso e… come dire… “bitching around”, tra scendere a patti con cose che non ti piacciono e tra (e questo è quello che cerchiamo di fare noi) il fatto che musica significa comunicazione. Devi comunicare col tuo utente, come quando suoni. Da un lato non mi piace pensare “dipende da dove sono e suono quello che serve in quel momento”, dall’altro mi piace comunicare e non voglio dimenticare mai che davanti a me ho un pubblico e che ci sto comunicando a due vie. Non mi piace nemmeno l’artista che si mette sotto una campana di vetro e si fa i suoi viaggi.

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E non è mai stato frustrante? Intendo nel caso che non si sviluppasse un linguaggio con cui comunicare bene?
Lo è stato, qui tocchi bene, anche per il fatto che non sono sempre stato un DJ ma più un produttore di musica. Ho cominciato a suonare tanto più o meno quando è nata l’etichetta. All’inizio non avevo idea di cosa significasse fare quella vita, di cosa significasse confrontarti ogni santo fine settimana con la pista. All’inizio è stato un treno in faccia. Altre etichette avevano o il grande nome che le lanciava o tutta una serie di connessioni e cose che aiutavano, il che faceva anche famiglia e fa scuola. Immagino, ad esempio, che chi ai tempi iniziava a uscire su CLR e a fare tour con Chris Liebing almeno stesse imparando in quella maniera. Per noi era diverso, non avevamo NESSUNO, cioé io sono arrivato qui letteralmente con le pezze al culo, perché non avevo nemmeno i soldi per farmi la spesa e non avevo idea di nulla. Sono arrivato anche in un anno di profonda depressione, in un periodo della mia vita molto difficile, e nel silenzio della mia stanza, lungo un anno, senza neanche rendermene conto, ho creato tutta la struttura che sarebbe diventata stroboscopic. Appunto, le cose non sono mai così coscienti, sul momento era diverso: avevo momenti in cui sentivo “questo è quello che voglio fare, la perfetta trasposizione di quello che faccio in studio ma in un contesto diverso”, altri in cui mi dicevo “ma che cazzo ci sto a fare, mi sento una scimmietta a cui tirano le noccioline”, capito? Up & down, così come non credo mai alle interviste in cui i DJ dicono “è meraviglioso, ho raggiunto il sogno della mia vita”, non ci credo manco per il cazzo… È un belllissimo lavoro ma è anche molto stancante. Sono solo due anni e mezzo che io mi sento in mano la maniera giusta di approcciare come suono quando suono, di sentirmi abbastanza libero e in comunicazione col pubblico.

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C’è stato qualcosa, un evento qualsiasi degli ultimi cinque anni che ti ha insegnato più di tutto il resto? Una cosa qualsiasi, da una tua release a un evento extra-musicale…
Potrei citarti due episodi, uno mio e uno legato a qualcun altro. La mia è la release del mio primo album: Wordplay For Working Bees. L’ho fatto lungo l’arco del tempo di anni, e ci ho messo tanta frustrazione, ci ho inserito tanti mood di momenti in cui non stavo per niente bene. Il risultato è stata una massa e matassa di materiale che poi è diventata l’album. A un certo punto l’ho preso e l’ho buttato fuori, è stata una piccola affermazione del mio ego con cui dicevo “di questa scena ci sono cose che mi piacciono ma tante altre mi fanno vomitare, questa è la mia critica”. Tutti, soprattutti i distributori mi dicevano “ma che sei pazzo, non venderà niente…”, invece l’ho buttato fuori ed è successo il pandemonio: ho iniziato a suonare ogni weekend e c’è stato un interesse pazzesco della scena, mentre paradosalmente io mi ero detto che quella sarebbe stata la fine, che avrei cambiato strada… Un bel modo di chiuderla. Invece è successo l’opposto, il che mi ha insegnato che alla fine l’integrità paga. Certo, se vuoi tenerti in un ambiente low profile e underground, se così vogliamo chiamarlo. O diciamo: se hai a cuore il lato artistico. Puoi scoprire te stesso in maniere diverse. Io credo di avere capito il mio primo album un anno e mezzo dopo che è uscito. Se perdi il controllo ti scopri molto di più.

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E quello non tuo?
La prima volta che ho visto suonare Zach, DVS1. Eravamo già abbastanza amici ma, per un caso o per un altro, non eravamo mai stati l’uno a una gig dell’altro. Con lui la storia è particolare perché abbiamo iniziato nello stesso momento, eravamo proprio sincronizzati: circa cinque anni fa, quando l’etichetta aveva appena aperto io dovevo fare una release su Prologue e lui dei remix per quella release, ricordo che ci siamo seduti a un tavolo e abbiamo parlato del fatto che in quel momento stavamo avendo le prime richieste da parte di agenzie di booking e volevamo sapere l’uno le idee del’altro. Dopo un bel po’ l’ho visto suonare e ho detto: “questo mi mancava”, cioè se mi sentivo molto preparato dal punto di vista dello studio e della produzione mi mancava l’aspetto della performance. Lui è l’opposto: è sempre stato più un DJ che un produttore e mi ha colpito così a fondo che ho capito che era possibile mantenere l’integrità che avevo in studio anche davanti a un pubblico.

C’è un aspetto che è da sempre molto interessante di Stopboscopic, non so se sia voluto o meno. È sempre stata una label internazionale, anche perché muoversi nella scena techno oggi lo implica, ma ha sempre mantanuto una certa partecipazione di artisti italiani. Penso soprattutto ai Dadub, che fanno parte di Stroboscopic da praticamente sempre, e durante il 2014 sono usciti anche Donato Dozzy, Chevel… È importante mantenerla, per te?
Estremamente importante. Da un lato non è voluta, non sto favorendo artisti italiani, quello che vedo è che ci sono tanti artisti italiani validi. Non sto favorendo nessuno in merito a nessun tipo di appartenenza perché neanche ci credo a quel tipo di ideologie. Però devo dire che, proprio perché in Italia al momento c’è una situazione così delicata a livello di impossibilità democratiche di esistenza, diciamo, questo ha automaticamente rinforzato i movimenti underground. Succede sempre: i posti in cui il fattore esistenziale diventa delicato sono quelli in cui andare a ricercare i cervelli, perché le culture underground funzionano per contrasto. È estremamente importante, e ci sono da vecchie partecipazioni come Chevel, a New Entry come Donato che ovviamente ha un’altra età e un’altra storia, o i Dadub, che si sono sempre stati, che identificherei come di una generazione che sta in mezzo alle altre due e che hanno un output completamente singolare.

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Ma dal punto di vista di chi è andato a vivere a Berlino e ha aperto una label lì, non pensi che questo accentramento abbia indebolito le scene locali? Prima c’erano molte più scene in Europa, ognuna con un suono completamente diverso, ora mi pare che questa biodiversità sia stata un po’ sacrificata…
Sicuramente quello è cambiato, ma non penso sia una cosa per forza una cosa negativa: si è internazionalizzata la scena, quello che trovi a Parigi è un piatto di programmazione molto simile a quello che puoi trovare a Berlino o a Londra. Questo ha però dato notevole forza alla scena, e ha permesso di costruire un certo business intorno alla scena. È grazie a quest internazionalizzazione che qualcuno dall’altra parte del mondo, in Australia, è interessato a Mr. Lucy che abita a Berlino e se lo porta lì per fare un tour. Ti permette di espandere il tuo messaggio in maniera forte senza toccare il mainstream: quando la nicchia si internazionalizza, le tantissime nicchie in giro per il mondo diventano una massa mantendendo il loro discorso di nicchia. Non è un male e, a dire il vero, vedo la volontà di riconoscersi in certe scene: c’è un a scena UK techno cos’ì come c’è tutto uno squadrone pronto a riconoscerci nel suono di Amsterdam, legato al giro Delsin e via discorrendo… Magari può avere indebolito scene come quella italiana, ma allo stesso tempo anche no: il genere è diventato talmente forte che almeno ci sono tour di artisti cazzuti anche in Italia, che invece sarebbero soggeti solo alle mafiette locali.

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Non che questo non succeda ancora spesso…
Solo in parte, perché comunque quando sorpassi un certo livello quella storia non esiste più. Ti chiamano perché la gente è interessata. Chi vuole paga il biglietto e riempie il club, e ai promoter interessa questo.

Tornando ai tuoi dischi: che mi dici di Churches, Schools & Guns? Lì mi pare tu abbia voluto decisamente calcare la mano sulla sperimentazione.
Sì, assolutamente.

È stato per ripetere il gioco del primo?
Non proprio. In parte il procedimento è stato lo stesso. L’idea è sempre quella di giocarla su cose non strettamente dancefloor, e il bello di un album è che ti permette di costruire un’architettura vera e propria. Mentre però il primo era frutto di un periodo di frustrazione, il secondo è diverso, più intimo, di processi emotivi personali, anche se gli ho dato una significanza più geopolitica. Però in termini di processo di produzione legato a come quelle dinamiche geopolitiche mi facevano sentire. Era una pura espressione del mio essere artistico, e con questo intendo la relazione tra soggetto e conmunità.

È qualcosa che traspare molto anche nella musica, direi. A proposito di intenti e obiettivi, nella bio di Strobosciopic c’è scritto che la serie Monad è “music as a messenger of organic evolution”. Che intendevi con questo?
Vai a vedere se l’ho scritta io quella cosa… Hahaha. Comunque, questo mi fa venire in mente qusnto sia sempre stato importante il lato visuale per Stroboscopic: la serie Monad è tutta basata su illustrazioni di biologia dell’Ottocento: quelle cellule e i mircorganismi messi lì. Questo ha pian piano condizionato addirittura la maniera in cui gli artisti fanno musica per quella serie lì. Monad va solo su invito, si parla con l’artista, gli si dice di cosa c’è bisogno e qual è il concetto della serie. Il discorso evolutivo nel caso dei Dadub è stato preso proprio alla lettera, e il bello della serie è che non ci sono limiti di durata ma degli archetipi: due tracce più techno, una più broken e una in cui sentirsi completamente liberi. Questo ha dato una specie di stampo alla serie, quello su cui ho sempre cercato di spingere è stato il dare enfasi al processo di creazione organica di una traccia, dire agli artisti di non consegnare un prodotto finito ma lo scorcio di quel momento istintuale di quando ancora sei nello studio e stai componendo.

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Un’altra cosa interessante di quella bio è il paragone con Basic Channel, spiegato come “romancing of spatiality and depth”, quindi una specie di passione per l’idea narrativa e generativa di spazio sonoro. Da dove viene?
Una delle più forti influenze che ho sempre avuto, a parte Basic Channel e quel tipo di techno dub o il dub in generale, è sempre stato il kraut rock. Avevo visto una bellissima intervista in cui qualcuno diceva “per alcuni era la voce, per altri le chitarre… per noi era lo spazio”. Tutto quel gioco di riverberi ecc.. Sono scelte puramente estetiche che mi hanno sempre affascinato da morire, sia per le scelte artistiche che faccio con l’etichetta sia per quello che produco io stesso. Se pensi che il riverbero non è che l’interazione tra il suono e il posto in cui è, per me si traduce nel modo di dare lo statuto di realtà a quello che stai immaginando e creando.

Costruisci la presenza fisica del suono.
Praticamente sì. Gli stai dando il senso di realtà o di irrealtà, realtà virtuali che possono non esistere nel mondo fisico di tutti i giorni, ma è comunque quello che fa sì che il tuo cervello di ascoltatore lo accetti come reale, quindi anche come figo e bellissimo hehe. Io delle volte mi devo limitare, altrimenti la mia musica sarebbe una nuvola incomprensibile.

Ignazio Mortellaro - "Zeitgeber"

E la presenza fisica dei dischi? Hai accennato prima all’importanza dell’aspetto visuale. Costruire un immaginario è una componente chiave per ogni label, quindi spiegami come avete costruito il vostro.
È assolutamente fondamentale. Sono sempre i ragazzi di Oblivious che se ne prendono cura: è un collettivo di artisti diretto da mio fratello Ignazio, quindi è sempre stata una situazione molto fortunata perché siamo artisticamente cresciuti insieme, è sempre stato un rapporto estremamente sinergico, il che è fondamentale. Qualsiasi cosa… design del sito, delle release… devono essere sempre le stesse mani a farlo. Ci sono diversi concept, relativi a ogni serie o a ogni album, ma per sommi capi ti posso dire che ognuna ha avuto una sua formula specifica. Diciamo che, anche sul’astrattezza, mi piace che resti un senso organico, che si senta che sono artefatti, fatti con le mani, con le macchine o a china, che non risulti mai eccessivamente glaciale. Che si veda o no mi interessa poco, l’importante è che il processo sia di un certo tipo, alla fine viene tutto fuori.

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