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Musica

"Un ambiente confortevole per nuove idee" — Abbiamo intervistato Holly Herndon

Mentre aspettiamo di vederla a Milano e al Dancity di Foligno, abbiamo chiacchierato con lei di cose ovvie, come la tecnologia, e meno ovvie, come le sue trecce!

Non riesco a ritrovare quella foto su Instagram, ma era davvero surreale… Praticamente, ti spiego, Holly era lì, al centro della sala stampa, con le mani pressate sulle cuffie davanti al computer, seduta per terra in un angolo con un turbinio di persone intorno, e questo giornalista si è fatto un selfie con lei a sua totale insaputa! Sembra minuscola, accovacciata sullo sfondo della foto, in lontananza, mentre tenta disperatamente di rispondere alle domande di un’intervista.”
Mat, guarda che l’intervista la stavo facendo proprio con lei.

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Siamo a Milano, Holly Herndon e Mat Dryhurst si sono fermati qualche giorno di rientro dal Sónar. Holly suonerà qui venerdì e poi ripartiranno per la Francia, ma i primi di luglio saranno ancora in Italia alla volta del Dancity Festival di Foligno, dove si esibirà sabato 4 luglio nello splendido Auditorium San Domenico, lo stesso in cui venerdì avverrà il ritorno di Cabaret Voltaire. Sono stanchi ma sorridenti, a Barcellona è stato molto intenso mi dicono—le urla che hanno fatto da sottofondo alla nostra chiamata non lasciavano effettivamente dubbi a riguardo—sono contenti di essere in Italia e finalmente hanno qualche giorno per riposarsi dopo il lungo tour di promozione di Platform.

Questo secondo album di Holly Herndon è denso di elementi che si sviluppano poi mutevolmente nel momento in cui viene performato dal vivo. Mat e Holly sono compagni nella vita e nel lavoro e l’intensità e l’entusiasmo con cui si dedicano alla sperimentazione continua, cercando di spostare sempre il risultato un po’ più in là, è davvero impressionante.

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Alla fine abbiamo deciso di utilizzare quel selfie del giornalista nell’ultimo live” mi dice Mat “quindi insomma, Holly suonava e questa volta il faccione gigante di quel tipo fluttuava proiettato dietro di lei.”

È una musicista un po’ difficile da inquadrare, tanto quanto è difficile parlare della contemporaneità e del futuro nel momento stesso in cui stanno succedendo. Si può dire forse che l’output finale della sua ricerca musicale sia “elettronica sperimentale,” che è un po’ il classico genere inesistente che si cita quando non si sa come descrivere una cosa più nello specifico, ma di fatto si tratta di suoni “elettronici” nel senso di “processati da un software” e di un lavoro a monte che ha a che fare con l’invenzione di un metodo… Quindi sperimentale! I suoi strumenti musicali sono la sua voce e il flow di informazioni processate dal suo computer nello svolgere normali attività quotidiane, tutto questo viene filtrato e controllato, ricomposto, armonizzato e gestito dal vivo da software autoprodotti su misura insieme ad altri artisti. I concetti che Holly mette in campo sono contigui e coerenti alla modalità in cui vengono prodotti i suoni: ci parla di amore ai tempi dell’NSA, di consapevolezza tecnologica, di sparizioni nel flusso di dati. Nel suo lavoro anche la scomposizione ritmica è impegno politico, ogni suono esiste per un motivo e ciò nonostante il suo sforzo maggiore è quello di catturare in nostro orecchio e ci riesce perfettamente, ma senza rassicurarlo mai troppo.

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Quando tre anni fa ascoltai il suo album Movement per la prima volta, fu una specie di folgorazione. Mi fu chiaro fin da subito di trovarmi di fronte all’interfaccia sonora che sintetizzava un insieme di sentimenti e processi che legavano la mia vita a doppio filo con l’Internet. Da allora ho seguito il percorso di Holly Herndon con particolare attenzione: Platform, più che la sintesi finale di un periodo di lavoro, è un addensarsi di fatti, opinioni, relazioni e collaborazioni, pronto a espandersi di nuovo senza preavviso, includendo altro materiale instabile fino alla prossima forma intelligibile. Platform suona sicuramente più pop di Movement ma non per questo è un disco rassicurante: tutto si gioca in una tensione tra accessibilità di ascolto, necessaria per farci entrare nel mondo sonoro di Holly, e bombardamento di contenuti. Ogni suono e ogni parola sono il frutto di una processualità complessa, che entra ed esce dalla forma del singolo pezzo. La forma viene interrogata, sfidata e aperta costantemente, lasciandoci senza certezze ma con una certa energia.

L’importanza di questo lavoro è indiscussa: è stato recensito ovunque (anche da Noisey) e, in termini di visibilità, molto è cambiato dai tempi di Movement. Holly sembra leggere tutto questo come l’estensione di un’urgenza, ora semplicemente sempre più condivisa, di acquisire consapevolezza di una certa parte della contemporaneità, per poi rimettere tutto in gioco in una forma sonora estetizzata, calda come il proprio computer portatile tenuto in braccio nel parlare su Skype con una persona cara durante una sera d’inverno. Ah, probabilmente l’NSA sa tutto quello che vi siete detti. Qui sotto c'è la trascrizione di quella chiacchierata in diretta dalla sala stampa del Sònar. Probabilmente l’NSA sa già anche questo.

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Holly Herndon: Hey ciao! Scusa non sono riuscita a trovare un posto tranquillo in cui connettermi, mi dispiace c’è davvero tanto caos qui!
Noisey: Ti chiedo anticipatamente scusa io per il mio inglese, sarà un mezzo disastro con i rumori di fondo… comunque, hey, piacere di conoscerti!
Holly Herndon: Piacere mio!

Dunque… inizierei a parlare con te non direttamente del tuo ultimo album, di cui tantissimo si è già scritto e analizzato, vorrei chiederti invece: cosa ne pensi dell’accelerazionismo? Mi sembra ci siano molti aspetti del tuoi ultimo lavoro che hanno dei tratti di adesione a quel tipo di “idea politica,” quanto ti ci ritrovi?
Penso che sia importante distinguere due differenti vettori all’interno dell’accelerazionismo: uno più di destra e uno più di sinistra. Posso dire di identificarmi con un certo accelerazionismo di sinistra, nello specifico, mi appartiene molto l’idea di utilizzare un certo tipo di infrastruttura con l’intento di cambiarla dall’interno. C’è una questione che riguarda la facilità con cui la tecnologia diventa l’unico mezzo che immaginiamo per risolvere tutti i nostri problemi: è un fatto davvero discutibile. C’è una sorta di iperempatizzazione con la tecnologia che non ritengo buona, ma è sicuramente interessante. Credo si debba essere “smart” a riguardo e sviluppare una conoscenza più profonda degli strumenti che utilizziamo e questo non significa usare la “tecnologia per il piacere della tecnologia.” Con lo sviluppo della sfera digitale credo che questo aspetto sia ancora più complesso, la tecnologia è di fatto sempre di più lo sviluppo diretto di un agglomerato di conoscenza umana, è costruita sul linguaggio, per questo è sempre più difficile vederla come un’entità separata dall’umanità.

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A proposito di connessione intima con la tecnologia, sicuramente lo scandalo legato all’NSA, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, è stato un grandissimo trauma per tutte le “persone dell’Internet.” Vedo una sorta di filo rosso che lega, da questo punto di vista, la tua pratica musicale al lavoro di tanti altri artisti visivi, parlo di Hito Steyerl, Trevor Paglen, Simon Danny e Metaheaven, con cui tra l’altro hai collaborato tanto nella parte video del tuo ultimo album. Credi si possa parlare, includendo tutti quelli che stanno lavorando sulla diversa percezione della rete dopo Snowden, di una sorta di “estetica post-NSA?”
C’è stato un grandissimo cambiamento nel nostro modo di vedere il mondo quando siamo venuti drammaticamente a sapere quelle cose, quello che il nostri governi stavano facendo. Non è solo quello che ha detto Snowden, anche tutto quello che era uscito già qualche anno prima su Wikileaks, la vicenda del Collateral Murder… Abbiamo messo in discussione il nostro governo per molto tempo, non potevamo non farlo nel momento in cui ci siamo dovuti scontrare con le prove che ci rendevano consapevoli di quello che era successo. Non c’è stata più scelta: capire come funzionano le infrastrutture e constatarne i limiti e il fallimento è stato necessario, il passo successivo è stato ovviamente quello di richiedere più trasparenza nei confronti dei cittadini, degli utenti. Stiamo vivendo in una società definibile come post-Wikileaks e credo che si stia sviluppando, che stiamo sviluppando, un’estetica che rappresenta questo specifico passaggio. Mi sembra sempre strano il modo in cui ci ritroviamo a utilizzare gli stessi riferimenti, con lo stesso coinvolgimento emotivo, nell’esprimere aspetti anche molto differenti della contemporaneità. Mi piace moltissimo Trevor Paglen, le sue immagini sono incredibili…e sì, hai citato tutti nomi di persone di cui ho presente il lavoro.

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Trovo anche una connessione particolare tra il tuo modo di lavorare e quello di Simon Denny, conosci le sue sculture?
Sì, ho presente, in che senso ti sembra connesso?

Penso che entrambi tentiate di mediare molto tra una certa densità di contenuti, anche complessi, e un linguaggio che si avvicina al pop. Ho sempre la sensazione, anche leggendo qualche tua vecchia intervista, che l’aspetto comunicativo, arrivare al pubblico senza respingerlo, sia sempre estremamente importante per te, tanto quanto lo sono le sculture di Simon Danny nel loro giocare sulla costruzione di un immaginario estetico dell’NSA estremamente accattivante. Se penso ad altri che come voi lavorano con i cosiddetti “big data,” come TCF per esempio, spesso non hanno quell’attenzione al non essere respingenti e puntano solo a un certo tipo di pubblico e a un certo tipo di ascolto. Nel lavorare a Platform pensi di esserti tenuta di più su di un versante pop rispetto al passato?
Penso che sia più pop e più sperimentale nello stesso tempo: la commistione tra le due cose è quello su cui voglio andare avanti a lavorare. È importante che ci siano contenuti e argomenti che arrivano da altre riflessioni che riversandosi poi in un pezzo musicale diventano in qualche modo più “pop”. Mi piace concepire la musica come un mezzo di comunicazione: permette un primo punto di accesso alle persone che così vengono in contatto con il tuo universo, con la tua visione. Successivamente è bello che, una volta all’interno, riescano a percepire anche gli altri livelli di quello in cui sono già immersi. Ho fatto parte per molto tempo della scena noise, e c’era un po’ sempre questa idea di caricare il pubblico contemporaneamente ed immediatamente di tutto, è stata un’esperienza molto formativa per me, la ritengo tutt’ora importante, ma in questo momento sono più inclusiva che combattente. Vorrei che le persone si sentissero accolte dal mio mondo sonoro, così da poter proporre una prospettiva differente, creando un ambiente di ascolto confortevole per nuove idee.

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Dal momento che la tua musica è così densa e stratificata e che il tuo comunicare è particolarmente evidente dal vivo—penso soprattutto alle tue ultime performance di spazializzazione del suono—come vivi il fatto che nel momento in cui qualcuno ha in mano un tuo disco lo possa ascoltare davvero in qualsiasi tipo di contesto, anche il più distraente? Come ti immagini possa avvenire l’ascolto “non live” dei tuoi pezzi?
Non saprei, è una condizione piuttosto variabile, ho un po’ di feedback via Twitter a riguardo, mi piace moltissimo quando mi scrivono cose come “non hai idea, ero seduto in autobus e intanto ascoltavo il tuo album e mi sono venuti davvero i brividi” o che ne so, che lo stavano ascoltandolo facendo jogging e che si sono improvvisamente sentiti pieni di energia… Penso che le persone lo ascoltino in contesti spesso diametralmente differenti, mi interessa un sacco quando l’ascolto è condiviso con chi non verrebbe mai a un mio concerto… Con un cane, per esempio, o con dei bambini, e qualcuno poi mi comunica le reazioni, veramente molto specifiche di ognuno, ad alcuni suoni. Non so, è davvero sempre molto differente, a volte è un ascolto singolo, a volte è condiviso, a volte è lo-fi a volte è hi-fi… in termini di produzione del disco è sempre molto complicato cercare di tradurre un suono in modo che vada bene per tutte queste diverse aree di ascolto, sono sempre consapevole di questo credo, ed è davvero difficile da progettare. Immagina, per esempio, anche solo tra due impianti diversi, in due luoghi diversi, che differenza abissale ci può essere. Recentemente sto lavorando di più anche su cose site-specific, con suoni multicanale e amo totalmente il controllo estremo che posso avere sulle sonorità, specialmente con la spazializzazione. In questi casi però il pubblico è davvero molto limitato, di solito riesco a fare questo tipo di performance in luoghi molto istituzionali, quindi davvero solo un piccolo numero di persone riesce a fare esperienza di quel tipo di pezzi. Sono costantemente combattuta tra questi due desideri contrapposti: da un lato vorrei sempre riuscire ad avere il controllo totale del suono, dall’altra vorrei che più persone avessero accesso a quello che faccio… Cerco sempre di tenermi attiva su entrambi i livelli, contemporaneamente… credo.

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In un mondo immaginario in cui non fossi obbligata a produrre un disco fisico per motivi di diffusione o più banalmente di sostentamento, sceglieresti comunque l’oggetto “disco” come veicolo o ti dedicheresti solo performance live?
Sai—ride—la mia etichetta non sarà troppo felice per questa mia dichiarazione…Ma…Non sono per niente attaccata all’idea del disco come oggetto in sé, non ho nessun tipo di romanticismo per i vinili o per altre forme di supporto fisico come i cd o le cassette…Do ancora molta importanza al suono registrato, questo sì, anche proprio come traccia di qualcosa che è accaduto. Ovviamente le registrazioni di una performance dal vivo oppure di qualcosa propriamente composto per essere registrato in studio sono totalmente differenti, però sai, mi piace immaginare che anche queste due cose possano essere spostate, mischiarsi, cambiare… Ci sono così tanti modi di operare da questo punto di vista, anche molto sofisticati, qualcosa potrebbe essere registrato e poi potrebbe essere manipolato o anche cambiato e aggiornato nel tempo… Non saprei, fondamentalmente è un ambito di pensiero interessantissimo.

Parlando di manipolazioni e livelli di significato che si fondono, come vivi l’utilizzo di un tuo pezzo come elemento sonoro per un oggetto terzo, per esempio una coreografia?
Mi hanno chiesto varie volte alcuni pezzi per performance di danza, poi non sono mai riuscita a vedere il risultato finale, quindi non saprei. In generale credo di preferire un processo di produzione contiguo al terzo elemento che si sovrappone: ho lavorato con dei danzatori, componendo delle cose apposta per loro, lavorando sul tipo di suono che potevano avere alcuni gesti, amplificandolo, manipolandolo… Penso mi piaccia di più questo tipo di processo integrato. È un po’ come il lavoro sul video: alcune persone pensano ok, ho un pezzo, ci metto sopra un video e via… Io non ho mai lavorato così, collaborando con Akihiko Taniguchi o con i Metaheaven per esempio, il video è sempre stato parte integrante del pezzo, non li mai considerati come separati, il processo è unico, solo cronologicamente disposto in modo consequenziale.

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@bringabook @holly_herndon

Un video pubblicato da Mat Dryhurst (@matdryhurst) in data: 20 Giu 2015 alle ore 13:31 PDT

Il tuo modo di procedere è davvero profondamente sperimentale, mi sembra tu ti muova totalmente come una ricercatrice in senso accademico, testando, prendendo le misure di un discorso che non è mai solo musicale, anche se trova nella musica il suo output…Come pensi di andare avanti nel futuro in termini di ricerca?
Penso di avere ancora del lavoro da sviluppare rispetto ai contenuti di Platform, finire l’album credo sia solo l’inizio di un progetto più grande. La prima parte è finire l’album, la seconda è parlare con la stampa e provare a spostare per un po’ il discorso anche su quel medium, poi ovviamente ci sono i live. Ora come ora stiamo sperimentando molto con la forma del concerto, cercando le modalità per renderlo un dispositivo aperto, in cui poter invitare anche altri a collaborare. A volte funziona, a volte no…La cosa più interessante per me è mantenere questa idea di continuo movimento di ricerca, mi annoierei a morte a suonare sempre la stessa cosa nello stesso modo in tutti i posti in cui vado… Sento Platform come un progetto realmente appena iniziato, io e Mat stiamo lavorando tanto sullo sviluppo del live nel contesto del tour… Sì, credo questa sia la cosa principale su cui stiamo lavorando al momento.

Stai ancora finendo il PhD a Stanford?
Sì, adesso ho preso una specie di periodo sabbatico per il tour, ma ho ancora un po’ di ore di lezione da fare, anche degli esami… tra non molto tornerò a lavorare lì, a volte penso davvero che sto facendo fin troppe cose.

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Penso che essere una ricercatrice accademica ti caratterizzi tanto però: la tua pratica musicale è un continuo mettere a punto, le due cose mi sembrano davvero connesse in modo estremamente fluido. A questo proposito: quanto sono diversi i live tra di loro? Sperimentate liberamente o provate vari cambiamenti sulla base di un contesto, delle collaborazioni, del pubblico?
In questo momento sto suonando sempre i pezzi dell’ultimo album, quindi esiste un quadro generale che resta sempre lo stesso, il set up però è modificabile, quindi c’è spazio per l’improvvisazione. Anche dal punto di vista visivo, abbiamo questo sistema basato su di un programma fatto apposta da Akihiko Taniguchi che è estremamente flessibile: posso aggiungere o togliere oggetti nel software molto facilmente, in qualche modo questo rendo il processo site-specific. L’idea che ci ha guidato nella progettazione del software è stata proprio la responsività, tenerla al centro del lavoro credo sia stato un punto di svolta molto importante per la nostra ricerca.

Movement era un disco piuttosto uniforme e il live coincideva col disco in termini di forma: era un continuo crescendo, come un unico pezzo. In Platform invece ci sono diversi pezzi, “canzoni,” anche molto diverse tra di loro. È un ascolto più vario e discontinuo. Ci dobbiamo aspettare un live che rispecchi questa discontinuità?
Credo che il live abbia una gran bel flow, hahaha. Sì, non mi metto di certo a fare un pezzo per poi aspettare l’applauso del pubblico e dire grazie—ride. Direi che si tratta più di un’ora di esperienza intensa, mi piace alternare momenti differenti, un po’ meditativi, poi più ritmici, poi più pieni o più asciutti…Mi fido del pubblico e penso che riesca a seguirmi, in modo diverso di volta in volta e anche in modo diverso in contemporanea—tengo sempre presente che ci può essere anche una grande varietà di personalità diversissime—ma fidarsi significa anche questo: credere in questa fluidità, in cui è molto importante che io mi prenda cura specialmente del momento di accesso.

So che ti hanno fatto questa domanda un milione di volte, ma volevo sapere, visto che sei in tour, rispetto alle ultime date che hai fatto, hai un pubblico che hai preferito ad un altro, o una location, o uno specifico tipo di location?
No, non credo di avere dei favoritismi, posti e pubblico differente portano energie differenti, quindi è sempre interessante, sono elementi che mi servono nel suonare dal vivo… Non voglio fare un discorso hippy, ma è davvero sempre importante, ed è bello perché mi permette di adattare il live, di provare altre cose, di imparare di più su me stessa e sul mio lavoro. Sto cominciando ad avere una predilezione per i posti in cui il pubblico rimane in piedi, dove tutti sono seduti sulle poltroncine si tende ad avere contatti solo con persone che già si conoscono, c’è molto meno contatto con gli altri, cosa che invece mi piace ci sia. È solo questo credo, non ho proprio una tipologia di posto preferita, città o pubblico. L’unica eccezione credo sia stata la scorsa settimana al Berghain, a Berlino, è davvero un posto speciale per me, è stato un po’ come essere in famiglia, hanno suonato con me Claire Tolan e Amnesia Scanner, che hanno anche collaborato all’album, AGF, che conosco e ascolto da tempo, poi c’è stato Jacob Appelbaum che ha fatto un piccolo intervento parlato… Insomma è stato molto bello, una buona parte della comunità hacker, che vive a Berlino perché è un luogo in cui c’è un certo tipo di protezione e possibilità, era presente. C’era tutta questa energia nella sala, quello che stavamo facendo era necessario, ce n’era l’urgenza, tutto questo ha aggiunto strati di significato alla performance, era una cosa che non sentivo così chiaramente da tanto tempo, è stato molto emozionante.

Wow, ci credo. Molto intenso.
Eh sì.

Ho un’ultima domanda per te, forse ti sembrerà stupida, ma come mai hai sempre la stessa acconciatura, con la treccia laterale? Esiste un motivo? Ho i capelli del tuo stesso colore e anche io faccio spesso una treccia di lato, quindi in qualche modo è un aspetto di te che non posso non notare…
È una specie di uniforme! Stavo leggendo il libro di Naomi Wolf The Beauty Myth, non so se hai presente, è un testo piuttosto chiave in quello che viene definito "secondo femminismo", parla molto di quanto gli uomini abbiano una possibilità, nell’abito, di essere protetti, mentre per le donne non è mai la stessa cosa, non esiste uno standard che le protegga nello stesso modo. Ho cominciato a pensare che se avessi trovato una sorta di “uniforme personale” o qualcosa che semplicemente è sempre ok per la mia persona, in ogni situazione, sarebbe stato qualcosa di cui non avrei più dovuto occuparmi. Non avrei mai dovuto discutere il “come sto oggi” in termini di femminilità o altro. Quindi è davvero come indossare un’uniforme, è qualcosa che mi libera dal doverci pensare. Ho questa amica di Los Angeles che disegna un brand, Sixty-Nine, e che praticamente indosso solo i suoi vestiti e un altro paio di marche, ma principalmente i suoi: l’idea del brand è quella di adattarsi a differenti età, forme e generi. Sono vestiti comodi, ma esteticamente molto curati. Insomma, soprattutto non avendo mai un armadio e viaggiando tanto, quando mi sveglio alla mattina, apro la valigia, tiro fuori un outfit di Sixty-Nine, faccio la treccia e sono pronta a usare il mio cervello per pensare ad altre cose.

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