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Musica

La moda del morto: come i giornali italiani uccidono due volte i musicisti

Commemorare i morti famosi è un'arte che le testate italiane ovviamente praticano nel peggiore dei modi.

Quella volta che per commemorare Demis Roussos si usò la foto di Riccardo Fogli che lo imitava.

Una delle poche ed esili certezze lasciate ai poveracci come me (oltre a “la pioggia cade ugualmente sui giusti e sugli ingiusti” e “marrone e grigio non stanno bene insieme”) è la visione della morte come “FINE DELLE ROTTURE DI CAZZO” inevitabilmente connesse al perpetuarsi dell’esistenza.

Nella cosiddetta dimensione social, però, le cose non vanno in questo modo: per le LEGGENDE (prevalentemente musicali) ormai trapassate, la morte dell’artista e le relative, immancabili, commemorazioni annuali si sono presto trasfigurate nell'INIZIO delle rotture di cazzo, più per chi rimane in vita che per chi è andato all’after—ammesso qualcuno abbia concesso la grazia di organizzarlo. Non basta lo stuolo di commemorazioni online a corpo ancora caldo: ad ogni sacrosanta ricorrenza un numero allarmante dei miei contatti Facebook si sente in dovere di omaggiare la LEGGENDA condividendo, postando, riempiendo intere schermate dell’internet della stessa canzone (assurdo come nessuno mai si azzardi a mettere tipo la nona traccia del terzo album della LEGGENDA, che chi cazzo la conosce quella, come se l'omaggio di massa non fosse ugualmente efficace se non si rimane compatti nell'ovvietà). Tutto ciò allo scopo di renderci edotti su quanto sia fedele e forte e sicura la venerazione per l’imprescindibile artista deceduto.

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Ovviamente questa splendida abitudine social non poteva non diventare endemica come la pellagra in Veneto alla fine dell’Ottocento, e anche le versioni digitali delle nostre più prestigiose testate giornalistiche si sono adeguate al nuovo trend (c’è un girone all’Inferno per chi usa la parola trend?), brucianti dal sacro desiderio di omaggiare personaggi di cui non gliene è mai fottuto nulla e speranzose di ricavare facili visualizzazioni e condivisioni dai cadaveri mediaticamente spolpati delle LEGGENDE.
Questo sciacallaggio funebre si attua attraverso una gran numero di modalità diverse, tutte accomunate dal fatto di essere più utili al giornale che al lettore. Ma esaminiamo insieme, tramite semplici esempi, le principali in cui ti imbatterai/ti sei già imbattuto di sicuro.

LA GALLERY

Dopo aver letto questo articolo mi sento B) Un autentico sempreverde: cosa c’è di più facile che digitare “Bob Marley” su Google Images, raccogliere i primi trenta risultati (stavolta magari però le fonti le specifichiamo, vero, signor CDS?) e pubblicarli in una gallery? A completare il tutto ci si aggiunge il riassunto del riassunto della voce di Wikipedia su Bob Marley, ed ecco che il nostro specchietto è pronto ad attirare stormi di ingenue e magari pure sinceramente interessate allodole.

Ma non è finita qui. DUE FOTO SONO DOPPIE. Si ripetono. Non so se è ben chiaro il concetto: hai la pretesa di riassumere vent’anni di carriera artistica in trenta immagini, e c’è una ripetizione. Ora, può sembrare una stronzata, ma a me hanno ripetuto per un numero a due cifre di anni di istruzione scolastica che è buona norma rileggere quello che si è scritto. Delle due, quindi, l’una: o questo consiglio non vale più quando si va in giro dicendo di essere il principale quotidiano italiano, oppure questa roba è fatta veramente col culo. Segui il Bianconiglio? (Piccola annotazione creepy: secondo il rilevatore di umori del sito, un lettore su due si sente “ganzo con gli occhiali da sole” leggendo un articolo su una persona a tutti gli effetti morta. Boh.)

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L’INTERVISTA DOVE L’INTERVISTATO NON C’AZZECCA UNA MAZZA

Potevamo forse vivere senza l'opinione di Capovilla su Cobain?

Vorrei soffermarmi con voi, miei diletti amici, su un piccolo estratto di codesta intervista a Capovilla riguardo l’anniversario della morte di Cobain: “Nel mio cuore i Nirvana non si sono mai sedimentati così tanto […] E poi non ho mai seguito tutta l'estetica grunge. Si trattava solo di ineleganti miliardari.”
Ora, potrebbe essere una mia impressione, ma qui mi pare che Capovilla stia sostanzialmente dicendo (con un molto politicamente corretto giro di parole, senz’altro) che i Nirvana gli hanno sempre fatto abbastanza meh. Il che di per sé non è assolutamente un crimine, ci mancherebbe. Il crimine però lo fa salire a me Repubblica: perché pubblicare un’intervista per ricordare una LEGGENDA ormai domiciliata presso le Isole dei Beati, nella quale l’intervistato ammette abbastanza candidamente che del morto, alla fine della fiera, non è che gliene fregasse poi così tanto? Le uniche motivazioni che sembrano poter autorizzare Capovilla a parlare di Cobain sono aver comprato qualche album dei Nirvana e averli sentiti live una volta. Wow. Oh, forse sono esigente io, ma non è un po’ poco? Cioè, non ci sono altre migliaia (milioni?) di persone al mondo che rispondono a questi requisiti? Perché la scelta è caduta proprio su Capovilla, cosa aveva da dirci che tanti altri non potessero dire? Cosa possono dirci interviste a musicisti random su altri musicisti morti random? La risposta, nonché il fulcro del problema, è: probabilmente nulla.

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IL TENTATIVO DI RIABILITAZIONE

I vicini dicono che salutava sempre

Molti musicisti fondamentali per la musica, ahinoi, hanno in comune una brutta abitudine: quella di andarsene da questa valle di lacrime secondo modalità non proprio ortodosse. È il caso del buon vecchio Ian Curtis, che a 24 anni ha deciso di appendersi in casa e farla finita. Il giornalista si trova qui davanti ad un bivio amletico: da un lato sa che il goloso cadavere del cantante ha ancora abbastanza carne attaccata da poterlo spolpare, dall’altro lato bisogna pur giustificare o almeno edulcorare un gesto socialmente scomodo come un suicidio. Da qui alla geniale rivelazione il passo è breve: anche Curtis sapeva ridere! Scusate, ma la malattia diagnosticata al frontman era depressione o una paresi facciale? No perché l’equivalenza depressione=incapacità di ridere dimostra un’ignoranza abbastanza preoccupante su questa malattia. A ciò si aggiunge il dubbio che anche musicalmente e artisticamente non si sappia bene bene di cosa si stia parlando: leggendo un qualsiasi testo scritto da Curtis, è possibile dubitare per un attimo del suo stato mentale? Ora, il caro Ian poteva anche farsi tutte le risate che voleva con i suoi bandmates, ma un verso come “a cloud hangs over me, marks every move, deep in the memory of what once was love” non lo assocerei alla serenità di un Don Matteo qualsiasi. Ma tutto ciò al lettore medio di Repubblica non interessa: anche Ian Curtis sapeva ridere, un disagio esistenziale tremendo che ha portato ad un suicidio è diventato topica macchietta da rockstar, lo status quo è salvo.

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LA BIOGRAFIA DEL GIORNALISTA

Preterizione = la figura retorica dei paraculi.

Almeno una volta nella vita capita a tutti di dover chiedere informazioni. Spesso è un’operazione relativamente semplice, che richiede non più di qualche decina di secondi. Altre volte invece siamo particolarmente sfigati: il nostro interlocutore (solitamente abbastanza vecchio, ma a volte semplicemente suonato/a come una campana) si è appena reso conto di quanto sia stata interessante la vita che ha trascorso fino a quel momento, e che noi siamo esattamente il pubblico di cui aveva bisogno. Ora, davanti a questo genere di imprevisti, quando capitano nella vita vera, ci sta fare buon viso a cattivo gioco, almeno per un poco; in un articolo pensato per ricordare un musicista scomparso è pura masturbazione. Se siamo qui perché vorremmo parlare di Freddie Mercury, cosa me ne frega di un viaggio nei ricordi di un autore nostalgico, o forse senza nulla da dire? Perché una carrellata biografica di un giornalista qualunque, non un tipo a cui Freddie ha cantato nel microfono e incidentalmente faceva pure il giornalista, no, semplicemente un giornalista a cui garbano i Queen, dovrebbe essere un modo accettabile per omaggiare un morto? Non potrebbe essere una buona idea fare un test per misurare lo sticazzismo di un articolo prima di pubblicarlo?
Fun fact che poco c’entra: in tutto il pezzo si respira quel sano vecchio nostalgismo duroepuro “ah prima sì che erano grandi ora colla nuova formazione merda a gogò”. Tralasciando se sia un giudizio corrispondente effettivamente a verità (che a me m’han sempre fatto cagare a prescindere, i Queen), trovo quantomeno affascinante che questo atteggiamento sia capillare in tutta la redazione del Fatto Quotidiano. Cioè, solo lì si poteva leggere questa roba, davvero.

LA SOLUZIONE

Inception: l'antologia di ricordi sul Web.

Ma, vi chiederete voi a ‘sto punto, come comportarsi davanti alla morte di un artista amato? La soluzione, paradossalmente, è proprio in quest’ultimo articolo di una decina di anni fa su Battisti. “Sono i «battistiani»: una schiera di uomini e donne che non conoscono tra di loro differenze di genere, d'età, di appartenenza politica […] e che per ricordare Battisti non hanno bisogno di date particolari.” Ora, ignoro se tali battistiani, mutazione a me sconosciuta del ben più tipico rettiliano, siano effettivamente esistenti; anzi, forse proprio il loro essere creature mitiche, di fantasia, probabilmente protagoniste di qualche sconosciuta mitologia precolombiana, deve spingerci a emulare il loro comportamento. E sì, tutto deve partire dal basso, perché siamo stati noi ad autorizzare implicitamente tutto questo: quando smetteremo di cercare i "mi piace" pure sulla pelle di un morto, allora i quotidiani dovranno smettere di pubblicare banner travestiti da articoli commemorativi. L’omaggio non sarà più una conta di click, ma un preservare l’opera di un artista.