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Musica

Perché i Franti erano lì

La storia dei Franti, band non catalogata della Torino anni Ottanta, raccontata in un libro a cura di Cani Bastardi. Qui abbiamo gli estratti dei loro racconti in esclusiva.
Sonia Garcia
Milan, IT

“Noi siamo un gruppo musicale autonomamente definitosi, nella misura in cui reputiamo la cultura antagonista nei contenuti e, soprattutto, nelle forme uno specifico motore rivoluzionario del movimento. Pensare, discutere, suonare, scrivere, sperimentare cose che hanno sempre fatto parte del nostro modo di essere come collettivo di persone, in questi anni fuori da ogni business e logica di mercato.” (Franti)

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Il complesso Franti si è formato a Torino nel 1976 da Stefano Giaccone, Massimo D'Ambrosio, Marco Ciari, Vanni Picciuolo, a cui successivamente si è aggiunta Lalli (Marinella Ollino) come voce. Il nome è tratto dal personaggio di Cuore di Edmondo De Amicis, e racchiude un'anima bastarda, incatalogabile e incatalogata, verso cui far confluire molto più che la musica e i suoi derivati. La loro sarà infatti una piattaforma attiva su cui coesisteranno poesia, lotta armata, comunismo, anarchismo, Cesare Pavese, suggestioni beat, Che Guevara. La formazione inizialmente non è stabile, ma lo stile si distanzia fin da subito dalla corrosività del punk canonico, che in quegli anni stava scuotendo le coscienze di molti, moltissimi giovani torinesi. Il loro approccio era più free jazz-prog-folk, e l'alto grado di sperimentazione e ricerca sincretica di sonorità "nuove" li avvicinava più a gruppi come CCC CNC NCN, che ai Negazione. Dopo un paio di cassette uscite—Luna Nera e Schizzi di Sangue—e dopo aver fondato l'etichetta Blu Bus assieme ai Kina nel 1984, la band collabora con i Contrazione per uno split e nel 1986 se ne esce con il significativo e iconico Il giardino delle quindici pietre, indubbiamente il loro album più rappresentativo. Il titolo cita l'antica storia giapponese del giardino del tempio di Ryōanji di Kyoto, commissionato dall'Imperatore in epoca medievale. L'architetto ingaggiato lo realizzò come da richiesta, e al suo interno piazzò quindici grosse pietre che grazie a un'illusione ottica, agli occhi di chi si trovava all'interno risultavano sempre quattordici. Una in meno di quelle effettive.

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Ciò che i Franti sono riusciti a creare e offrire alla comunità punx di quella Torino è stato raccolto in un libro,

Franti - Perché era lì, antistorie da una band non classificata,

curata da Luca Buonaguidi e

Cani Bastardi

, editore

Nautilus Autoproduzioni

. Il libro è diviso in quindici capitoli, quindici pietre appunto, a simboleggiare didascalicamente il materiale composito di musica, politica, lotta, poesia che gli stessi Franti si occupavano di tenere vivo. Come all'Imperatore giapponese rimaneva lo sconcerto per l'illusione delle pietre nel suo giardino, anche in loro era vivido il desiderio di ampliare l'intimità del limite conoscitivo più in là possibile, per poi calibrare ogni azione o non-azione di conseguenza. Scrive nell'introduzione Buonaguidi:

"Un limite che si estende necessariamente a ciò che è stato, a ogni rivendicazione, a ogni lotta; così a ogni avventura individuale e collettiva sfuggirà sempre qualcosa. Come viverle, dunque, arruolando nella battaglia sia la dimensione dell’utopia che quella del limite? Nelle note di copertina dell’omonimo e ultimo disco dei Franti, il più ineffabile, si legge: «Certo: volendo (e potendo) salire in alto, si sarebbero visti tutti i massi, ma per gioire di un giardino bisogna camminarci in mezzo», camminarci in mezzo come le formiche, annullando il pensiero, diventando il pensiero, cantando il pensiero che si è e si è annullato al contempo."

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Ci siamo fatti dare in esclusiva gli estratti di sei di questi quindici microcosmi "non classificati" attraverso cui autori come Guido Rossetti, Roberto Banchini, Stefano Giaccone (ex Franti) e molti altri, hanno dipinto l'ecosistema fiorito attorno alla band/antiband torinese.

PIETRA N.2 - Un bel modo di rimanere vivi, di Guido Rossetti

È la primavera del 1986 e proprio qui, a Pinerolo, illustre orifizio anale del mondo, ci sarebbe da suonare di pomeriggio in un mega concertone autogestito in cui, alla sera, suoneranno dei gruppi “famosi” di Torino. Due di quei gruppi saranno tra le stelle polari di tutta la mia vita: Nerorgasmo e, ovviamente, Franti. Facciamo la nostra suonata di pomeriggio, senza infamia e senza lode. La ricordo con tenerezza come molte delle cose di quel tempo. La botta, però, mi arriva la sera. In quel panorama di creste, spille, jeans strappati, birre e birre e birre e tipi, finalmente, poco da provincia piemontese, arriva sul palco un gruppo che di punk, in senso estetico, non ha una bella minchia di niente! Intorno si respira un’aria di profondo rispetto… Il pogo lascia il passo a un ascolto consapevole, le birre vengono momentaneamente riposte nelle loro fondine, il tipo dall’aria fusissima che mi basculava accanto fino a cinque minuti prima sembra un leone addomesticato.

Nessuno lo ha riempito di calmanti; è la potenza dolce ma ferma delle parole dei testi dei Franti. Resto un po’ colpito dal quietarsi del casino e dal fatto che queste persone così in apparenza diverse, vibrino in modo uguale. Qualche decennio dopo realizzerò con molto disincantato do- lore che quelle stesse persone sono “cresciute” in modo diver- so, ma questa è una deriva lacerante e forse inevitabile di una certa tipologia dell’animo umano. Correndo dietro a questa selvaggia associazione di idee Franti-centrica, non posso non ricordare che molti degli intransigenti “compagni” di quegli anni, anarchici o comunisti, che hanno fatto le pulci al mondo su testi, musiche, vestiti, alimentazione e così via, oggi sono ingegneri, liberi professionisti o “capetti” di ditte multinazionali… è proprio vero che verso la quarantina—spesso, non sempre, ma molto spesso—si diventa coglioni borghesi come quelli che si combattevano vent’anni fa o giù di lì. Io non lo sono diventato e sono sicuro che Franti ne sarebbe fiero!

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Tornando al concerto ricordo che al termine della serata le mie certezze “musicali” presero una botta pari a quella provata poco tempo prima scoprendo gli Area. Mi procuro, allora era possibile senza passare tra le grinfie dei collezionisti, Il giardino delle quindici pietre, il masterpiece dei gruppi italiani di sempre e inizio a “sezionarlo”, sia la parte nera coi solchi e il suono che la copertina e la parte scritta coi testi e tutto quanto. Scopro che non c’è bisogno di essere Guccini o Lolli per dire qualcosa di davvero sensato, in italiano… […]
Ciò che mi stupisce molto è che questi qua non suonano mu- sica “punk”, non sono vestiti “da punk”, non fanno i classici due-tre accordi di molti gruppi punk, ma il loro midollo spi- nale emana punk fino al profondo della sua sezione! Fenomenale.
E la cosa ancora più fenomenale e che, proprio come i punk, non c’entrano un bel cazzo col mondo “riformista” che c’è lì fuori…
Anche loro sono “fuori dal recinto delle mucche”, quello con la corrente a 12 volt. Misteri della capacità di espressione umana!

Uno dei motivi per cui un ventenne degli anni Ottanta va fino a Torino in treno o con quelle strade di merda si chiama Rock’n’folk. è un negozio “alternativo” (allora il termine era usato e sensato) dove si può trovare punk, metal, new wave o musica giustappunto “alternativa” in una cornice umana notevole. […] Da Rock’n’folk ricordo di avere messo le mani sulle prime fanzine della mia vita. Mi maledico per averle perse quasi tutte negli innumerevoli traslochi della mia vita. Mi ricordo che ce n’era una chiamata Punkaminazione, di quella ne ho ancora una copia da qualche parte. Da questi fogli assemblati autenticamente da spiriti autentici, ere geologiche lontane dal “copia e incolla”, scopro che puoi scrivere del cazzo che ti pare, anche in modo molto piacevole da leggere e che puoi organizzare attività senza che siano organizzate da partiti, associazioni o simili. Non è un salto da poco per chi ha sempre pensato che la delega sia irrinunciabile come il massaggio periodico del proprio pisello.

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Da quella lettura, da quell’humus, rimango impressionato dal fatto che Franti non ama definirsi una band, un gruppo, un complesso o così via, bensì un “collettivo” e per giunta aperto. Io che come hobby di ventenne memorizzo le formazioni dell’Inter o le line-up dei grandi gruppi dei Seventies, strabuzzo gli occhi davanti al fatto che un combo musicale possa avere una formazione variabile. Un’altra barrierona mentale si schioda come fosse un trave di legno durante un’alluvione.

E poi ’sta storia delle “A” cerchiate… All’inizio non capisco di che si tratti poi, anche grazie ai fratelli maggiori, apprendo che l’anarchia non è “il disordine”, come sosteneva quella testa di cazzo di parroco negli anni del catechismo ma è probabil- mente la forma di ordine umano più vera e più completa. è il rispetto naturale che intercorre tra persone sensibili che non hanno l’ambizione di incularsi l’un l’altro. Un altro bel salto… E da lì si va in biblioteca a cercare i primi testi su quella cosa così strana. Per fortuna, poi, l’occupazione di El Paso, a fine 1987, sarà fantastica e utilissima anche in quel senso, ma questa sarebbe un’altra bellissima storia. La scoperta dell’anarchismo è comunque sugli stessi binari della scoperta di Franti, su questo non ci sono dubbi e mi accompagnerà per tutti gli anni passati in fabbrica e anche dopo. Una cosa che mi è sempre piaciuto dei Franti è che mi hanno permesso di fare dei figuroni da “personaggio colto” in svariate situazioni.

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PIETRA N.3 - I Franti, Beckett, Captain America, lo sciamano, il vino, i joint di eucalipto e i sogni di fuga, di Roberto Bianchini

1996… Millenovecentonovantasei. Santa Croce sull’Arno, puzzo di conceria nell’aria, Villa Pacchiani. Ventitre e trenta, sala prove n.1, numero uno, anche se la 2, due, non c'è. Lo Sciamano sta bevendo un bicchiere di vino rosso, ha il basso Fender a tracolla non lo lascia mai, sembra che sia una parte aggiunta del suo corpo, sta ridendo. Captain America è seduto dietro i tamburi, sta ridendo anche lui, e ha in mano un calice di vino rosso come lo Sciamano e nell’altra mano le bacchette, le corde del suo strumento.

Il vino rosso è quello che ho comprato da un contadinaccio a Montecarlo di Lucca. Questo è un vino non pregiato e costo- so, ma che ha un senso di territorio profondo. Piscio, p****dio, merda, sputi e preghiere, la Toscana. I contadini mettono le loro mani sudicie sui grappoli d’uva rubati alla vite e alla vita e lasciano la loro fatica sporca sui grappoli appiccicosi, i moscini ubriachi si tuffano dentro i tini e muoiono di una morte alcolica che li rende felici. Quando noi mettiamo un bicchiere di vino alla nostra bocca, dentro quel liquido ci sono sporco di contadini e cadaveri di moscini ubriaconi, che ci fanno allargare le nostre bocche e ridere della morte.

Io sono Travis e ho un disco in mano e il bicchiere posato sull’amplificatore Marshall della mia chitarra, accanto a una delle candele che lo Sciamano ha acceso per illuminare la sala prove. Rido anche io, ma di che? Non lo so, forse dei moscini ubriaconi. Il disco che ho in mano è Il giardino delle 15, quindici, pietre dei Franti. Un disco che non so perché è capitato li, stasera. Ho il disco a casa registrato su una vecchia musicasetta, il disco non è mio è di Captain America. Forse il nostro Paul Eno lo vuole doppiare. Eno sta li con noi, non suona questa volta, ma cerca i suoni e le misticanze. Dal disco una bella faccia di uomo di colore mi sta guardando affacciato da un finestrino di un treno. Dove sta andando?

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Apro la copertina trasparente del vinile e tiro fuori il libretto allegato. Mi metto a leggere le prime pagine, ma stordito dal vino e dalle risate non riesco a capire niente. Allora faccio scorrere le pagine del libro senza senso alcuno sui pollici delle mani. Mi colpisce una frase che riesco a cogliere, girovagando tra le pagine. «Che farei senza questo mondo», vi è scritto. E io mezzo ubriaco urlo: «Che farei senza questo vino!». La cazzata mi è venuta fuori cosi, ma in realtà la frase che ho letto mi piace un casino. Una mazzata.

PIETRA N.4 - La verità è una terra senza sentieri, di Luca Buonaguidi

È appena saltata letteralmente la lettera F dal portatile su cui sto scrivendo queste pagine. La F di Franti. Al suo posto ades- so resta la base cilindrica di plastica che sostiene il tasto; non perdo tempo nel riattaccarlo, ho voglia di scrivere. […] Torno a guardare attentamente il tasto mancante alla lettera F come se fosse un plettro di cui alla fine non avevo bisogno. f. F. FFFFF. Ok, si scrive lo stesso, solo che adesso è diversa dalle altre lettere. è la F che si comporta da Franti, evidentemente.

E Franti come si comporta? Com’è che Franti appare e scompare? Una domanda che mi gira in testa da quando ho saputo dell’evenienza di questo libro intorno a Franti. Voglio dire: perché Franti riappare perfettamente incarnato, riposto sulla scena, da una band di allora ventenni torinesi? Perché trova negli anni Ottanta, Torino, il suo habitat naturale? Cosa hanno “questi anni” (di cui canteranno i Kina, dopo) per rendere così urgente l’affermazione di Franti, colui che era stato cacciato dal suo stesso autore, all’interno della stessa ope- ra in cui prende vita e soprattutto dall’immaginario italiano?appena saltata letteralmente la lettera F dal portatile su cui sto scrivendo queste pagine. La F di Franti. Al suo posto adesso resta la base cilindrica di plastica che sostiene il tasto; non perdo tempo nel riattaccarlo, ho voglia di scrivere.

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[…]

Torino dal ’75 in poi divenne ogni anno di più il crocevia degli scontri e delle rivendicazioni, più in generale del movimento politico, sociale e creativo “alternativo” dell’epoca. Da ora in poi basterà guardare ai fatti di Torino per avere un’idea di cosa sta succedendo all’Italia. Per spiegare come ci si sentiva a vivere a Torino in quegli anni ripesco le parole di un grande intellettuale italiano dimenticato, Furio Jesi: «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’‘hautlieu’ e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate». Torino negli anni Ottanta è tutto questo. Lo canta anche Lalli in una canzone di Franti, La mia faccia: «Le strade che da nere diventano grige/ Ho imparato ad amare questa città». Furono giorni imprevedibili. E in soli tre anni cambiò tutto: nel 1977 una manifestazione antiterrorismo indetta in seguito all’omicidio di Carlo Casalegno (vicedirettore de La Stampa) vide una Piazza San Carlo semivuota.

[…]

Cominciò il lento e inesorabile declino del “sessantottismo”, ma gli anni che seguirono furono tra i più autenticamente vivaci, variegati e innovativi della storia culturale italiana, l’ultimo colpo di coda di un movimento che di lì a poco si sarebbe esaurito e avrebbe proceduto individualmente o secondo modalità di aggregazione nuove e sempre più discutibili. Gli anni Ottanta sono anni per randagi, cani bastardi, infedeli alla linea laddove la fedeltà a uno dei due blocchi del ’68 è sovente un mero conformismo di forme e pose artistiche più che di sostanza politica e coerenza dell’ideologia (come dimostrerà la provocatoria operazione dei Disciplinatha in risposta ai CCCP). Sono anni scomodi per tutti, perfetti solo per uno, e quell’uno è Franti.

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PIETRA N.5 - Il suono del comunismo, di Stefano Giaccone

La cosa meno saggia che potrei fare è tentare di scrivere un saggio: non se sarei capace. “Sui” Franti, poi! Un saggio attorno a Franti: «ultimo montagne russe!», come dicevamo da bambini in quartiere. Non dico questo per scusarmi: «Mi dispiace, non ho le competenze». No, la mia incapacità deriva da un’attitudine, un modo di stare in campo. In parte una scelta, in parte una conformazione dell’anima. Ho sempre “attraversato” il mondo creativo (quello musicale ma non solo) come andando per boschi a far legna. Senza deferenza, senza presunzione. Ho cercato, trovato, raccolto e portato a casa. Spero di aver lasciato anche della legna mia, per altri da scoprire e utilizzare. Questa speranza credo si sia realizzata con Franti, un collettivo musicale che aveva in modo spiccato questa attitudine, questa indole: andare fuori dal perimetro della città e anche dei campi coltivati, esterni alla cinta cittadina (Environs, da en-viro, senza uomini), per cercare, incontrare, scoprire, riscoprire. E utilizzare. Citando sempre la fonte. Non per doveri legali o morali, ma per la- sciare una traccia, così che altri potessero ri/avviarsi su quel percorso e ri/crearlo nuovo, con nuovi incontri, incroci, nuove centri, nuove periferie, nuovi giochi e suoni.

La ricerca del Suono: io credo che questo sia il “luogo” realmente vitale dove è possibile trovare Franti. Il suono di un canto di montagna, di un concerto punk, di una molotov che si schianta su un blindato. Il suono delle lacrime che si tengono dentro, il suono del riposo, di un sassofono che straccia ogni accademia. Il suono del motore di un ascensore, che ti porta cento metri sottoterra, nella miniera dove lavori ogni giorno. Il suono di una serranda che si abbassa, al tramonto, nel tuo quartiere svuotato dall’estate. Il suono del bosco, quello dove milioni di essere umani hanno cercato e cercano pace, guerra, amore, consolazione. Nel lavoro, nello studio, nell’arte.

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Le mie parole, in questo libro/documento, propongono un percorso: mi interessa poco essere filologico, l’accuratezza, la storicizzazione, il rispetto delle regole d’ingaggio. Chiedo scusa: non sono un intelettuale, non sono un musicologo, un sociologo, un filosofo o uno psicologo. Racconto, come in una canzone, come io sia uscito di casa a far legna, da ragazzo. E che cosa io abbia trovato, come abbia sovrapposto, confuso, mescolato e trasportato questa legna. Così facendo spero di indicare qual è il modo migliore per trovare quella enorme/ minuscola catasta di legna lasciata da Franti. Ma poi ognuno faccia da sé quella strada, con curiosità, con furiosità, con desiderio.

[…]

Il mio contributo a questo libro, ha per titolo il Suono del Comunismo. Uso con (finta) disinvoltura la parola “Comunismo”. Un libro “sui” Franti, “sul” Punk, i Crass, i Sex Pistols, i mohicani e il Kaos Tag lassù in Germania, potrebbe essere pieno di A cer- chiate e la parola Anarchia potrebbe ricorrere spesso. Invece uso la parola “Comunismo”. Voce fuori campo: ma non era un libro sui Franti? Infatti, proprio per questo la uso e comunque, tra parentesi, questo non è un libro sui Franti. Direi che è un libro alla Fran- ti, frantiano. Almeno lo spero!

PIETRA N.7 - Cantare negli anni Ottanta, di Miro Sassolini, con Fabio Magnasciutti e Angelo Gambetta

Qui, Franti.
Io mi sento Franti.
Fino al midollo.

Ho sempre pensato che Il giardino delle quindici pietre non fosse solo un disco. Lo accostavo con disappunto agli altri dischi che uscivano a quell’epoca. Sembrava pensato per una biblioteca, una galleria, non era solo una operazione musicale e quasi stonava in uno scaffale di vinili. Ma è nel destino di Franti essere fuori posto, una scomodità vistosa e affascinante senza lusinghe, ma con la forza di un’idea, una scintilla a cui ho cercato di accostarmi inizialmente e da cui poi sono stato trasportato. Sorvolare Franti. Guardarlo, da fuori, dall’alto, di lato. Guardarlo quando è carne, poi quando è spirito. E infine, quando è un fantasma. Un’idea è sfuggita al controllo che un creativo a volte è costretto a porre come un sigillo sui propri processi artistici. Queste tavole sono un’opera aperta. Forse qualcosa di entropico, chimerico, ma necessariamente astratto e astrale: non avrei mai messo Franti in un recinto. Anche perché non ci sarebbe stato.

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Non volevo fare un dizionario sulla musica dal vivo negli anni Ottanta, Franti in quanto spirito non può essere una nostalgia. Non lo è mai stato. Una forma di rispetto nei confronti di Franti è non intervenire sulla forma di Franti. Franti è universalità. Una forza che trasporta. E l’idea ti porta lontano.

PIETRA N.8 - Franti, Ernesto De Rossi, Garrone, io, gli anarchici e il cinema, di Luigi Bontempi

Il cinema è un arma meravigliosa e pericolosa se viene usata da uno spirito libero. è lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto, della rivolta e della libertà.

[…]

Così tra birra, vino e una coca, diamo il via a una rassegna cinematografica [a Torino, ndR] mai vista mai immaginata prima, autogestita, autofinanziata, fuori dalle istituzioni, dai partiti, contro le regole del mercato. L’idea è che nessun cellulare possa posarsi su un fotogramma, nessun poliziotto possa fermare immagini liberate in un soffio, morte gelida e piatta, in una dimensione di ombra le ultime inquadrature di un film, le foto segnaletiche di un omicida in un vicolo cieco. L’emozione affiora sulla superficie dello schermo, la luce proietta attraverso i pori di un volo di promessa, fase futura visione, vene riempite di ghiaccio finché è completamente insensibile. Doppiata e fragile l’immagine da sola non può parlare. Ed ecco allora CinemAzione.

Nel decidere l’impostazione della rassegna abbiamo escluso a priori i film che rappresentano episodi della storia dell’anarchismo (come Sacco e Vanzetti, Joe Hill ecc.) escludendo con maggior trasporto quelli più noti, ampiamen- te diffusi dal circuito commerciale e nei cineforum di sinistra degli anni Settanta. Non abbiamo dimenticato di lasciar fuori anche film meno noti: i rassicuranti mattoni pedantemente didascalici-didattici (Cecilia), le interpretazioni storiche grossolanamente falsate da una precisa volontà mistificata di stampo ideologico (San Michele aveva un gallo) e le pellicole riduttive (Malatesta). Non è stato incluso anche quel vasto repertorio di film che “parlano” degli anarchici ossia film che illustrano più o meno superficialmente e incidentalmente personaggi sconosciuti o inventati presentati come anarchici (Che gioia vivere, O Megalexandros, Sterminate il gruppo zero, Libera amore mio ecc.). Abbiamo così inteso liberarci delle interpretazioni dell’anarchismo realizzate generalmente da registi e sceneggiatori estranei, indifferenti e impreparati o ideologicamente avversi all’idea.

Come sempre in questo mondo di merda, niente si muove senza il denaro, quindi nonostante la solidarietà e il coinvolgimento di compagne e compagni, ci vogliono i soldoni di Paperone. Così nasce l’idea di fare un super concerto al cinema teatro Mirafiori, con delle vere rockstar, per l’occasione si dan- no disponibili i Franti e i CCC CNC NCN, grande concerto, grande musica, grande partecipazione. Il biglietto è un po’ caro, costa diecimila lire, ma come si dice: «Tu dai una cosa a me, io do una cosa a te», quindi all’ingresso viene consegnata una tessera che permette di assistere al concerto e di entrare gratuitamente a tutte le cinque giornate della manifestazione cinematografica. Oltre al denaro, un altro nemico da sconfiggere è la burocrazia. Non potendola eliminare, e visto che dobbiamo trattare con distributori, locali, permessi, polizia, vigili urbani ci inventiamo una figura sociale: Associazione Luce Nera che racchiude un’accozzaglia di individui, che vanno dai punx agli anarchici. La rassegna verrà con modalità diverse ripetuta a Roma, a cura del Centro di Documentazione Anarchica.

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