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Musica

Dobbiamo parlare di Giorgio: come mai l'album di Moroder è stato un flop?

Giorgione ci ha spezzato il cuore con quella sòla di "Déjà Vu". Cerchiamo almeno di tirarne fuori qualche riflessione interessante.

È passato un mesetto dalla release del diciassettesimo album in studio di Giorgione Moroder, Déjà Vu, e in un mese è stato distrutto dalla critica più di un film di Vanzina. In ogni recensione che lo massacrava, c'era però una sorta di senso di colpa, come se i recensori stessero portando un vecchio cane dal veterinario per l'iniezione letale. Pitchfork ha descritto il tentativo di Moroder come "un'agonia insopportabile", Crack Magazine l'ha trovato "incredibilmente orrendo", mentre il Guardian ha optato per "deprimente". Insomma tutti d'accordo, il disco faceva schifo, ma più di questo, faceva schifo che facesse schifo.

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La cosa buffa è che nessuno si aspettava che Moroder avrebbe prodotto un classicone. Da quando era riemerso con la traccia per i Daft Punk, il sentimento che si provava nei suoi confronti era più che altro d'orgoglio. Giorgio non doveva provarci nulla. La sua reputazione era più che fondanta, quindi dopo Random Access Memories non avrebbe potuto far altro che vincere a mani basse. Per quanto mi riguarda avrebbe fatto una mossa più ingegnosa facendo uscire una compilation di greatest hits, con le paroline magiche "remastered" e "deluxe" in copertina, e il mondo non avrebbe potuto smettere di adorarlo.

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Tutte le foto via Discogs.

Moroder non l'ha fatto, e probabilmente dovremmo dargli credito per la forza e il coraggio dimostrati nel voler ricominciare davvero tutto, entrare in studio e creare nuova musica, anche se attorno a lui il clima era parecchio cambiato. In ogni caso, i punti critici di Déjà Vu' non sono il risultato di un tentativo retromaniaco e ingenuo, sono le conseguenze della poca forza che l'identità di un producer ha nel caos totale del mainstream. Il vero problema del disco è la totale assenza di personalità. Tracce come "4 U With Love", che apre il disco, o il featuring con Charli XCX, "Diamonds", sembrano la musica di sottofondo in discoteca in una scena di una serie TV di terza categoria.

Parecchi critici hanno parlato del tentativo di Moroder di ricalcare uno stile EDM, ma onestamente non credo arrivi a tanto. L'album, invece, è fatto di una serie di banger da baretto, e le tracce più incisive sono potenti come il B-side dimenticato dell'album mai ascoltato di una band di cui tutti si sono dimenticati. Ho reso l'idea? La cosa peggiore è che tracce come "74 is the New 24" diventano quasi grottesche. L'ironia sta principalmente nel fatto che da titolo l'età di Moroder non ha alcuna importanza, ma la traccia prova esattamente l'opposto.

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Quindi, perché è andata storta? Ad essere onesti, i segni c'erano. In un'intervista con Pop Justice, Moroder se ne uscì con un paio di frasi che ci avrebbero dovuto far sospettare che, durante la produzione dell'album, il ragazzo fosse alquanto confuso. Parlando di come avesse chiuso l'affare con la sua casa discografica, Moroder dice: "Dopo quella cosa coi Daft Punk ho ricevuto offerte da tre diverse major che mi chiedevano un album, e ho deciso di andare con la Sony." Quello che colpisce, qui, è come la conversazione sulla nascita dell'album non evidenzi che Giorgio avesse alcune idee, un po' di tracce e POI fosse arrivata l'offerta della major, ma come sia avvenuto esattamente il contrario.

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Questo non sarebbe stato necessariamente un male. Nessuno vieta a un producer di costruire il proprio album a tavolino, e questo non comporta che venga fuori necessariamente una roba mostruosa, tanto che esiste un certo tipo di pop che è fatto praticamente tutto così. Comunque, anche se il processo è avviato in questo modo, deve uscire dalla sala riunioni della casa discografica ed entrare in studio, a un certo punto—soprattutto se si parla di collaborazioni. Nella stessa intervista, Moroder parla di Britney Spears, che nell'album è voce di una cover bizzarra e confusa di "Tom's Diner". Su questo argomento, Giorgio dichiara:

"Mi ha chiamato e voleva che andassi in studio a registrarla con lei, ma io ero in viaggio, quindi non ho registrato quella parte personalmente. Ma tornerà, spero nei prossimi giorni, per registrare il bridge… Quello è un pezzo su cui i musicisti hanno lavorato l'uno indipendentemente dall'altro—la mia versione l'avevo scritta con Patrick [Jordan-Patrikios] il mio co-producer, ma non ne ero molto soddisfatto. Quindi l'ho passata a un gruppo di ragazzi, in Germania. A quel punto non ne ero ancora sicurissimo, quindi l'ho data in mano ad un altro musicista che apprezzavo, e alla fine ho messo insieme i pezzi. Praticamente in questa traccia c'è una rete di connessioni mondiale! Ma rivedrò presto Britney, e spero che trovi il tempo per tornare in studio con me! Nel caso non riesca a cantare quel bridge, dovrò toglierlo."

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Il processo qui descritto è, a quanto pare, quello che ha caratterizzato l'approccio di Giorgio a tutto il disco. La fonte non era univoca, non si trovava in un unico punto, anzi, era un composto di idee provenienti da prospettive diverse e da influenze che poco c'entravano l'una con l'altra. Non solo Moroder e Britney non si sono incontrati per questa cover, ma c'era un bridge lì a disposizione che non si sa dove sia finito, e quello che Moroder descrive come "una rete di connessione mondiale!" suona più come un'accozzaglia da Eurovision. Forse pensavano che sarebbe bastato il fatto che fosse un classicone interpretato da una super popstar per reggere quella traccia, la produzione reale era l'ultimo dei problemi.

È possibile che questo sia il punto in cui si è incrinato l'intero progetto: la fiducia conferita all'altisonanza delle singole parti, che poi, messe insieme, avrebbero fatto un disco. Il risultato, al contrario, è stato semplicemente un ammasso di nomi e una totale assenza di sostanza.

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Nell'articolo di SPIN a lui dedicato, si ventila l'ipotesi che la perdita di spinta di Moroder attorno al 1986, dopo l'iniziale botto, fosse da attribuire all'entrata in scena dell'hip-hop. Nell'intervista, dichiara: "Non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Zero. Capivo che era nuovo, ma non avrei mai potuto farci niente. Non capivo una parola di quello che dicevano. Non sono uno di città, non vengo dalla strada. Non lo sentivo mio. Non so se si possa dire che ero indietro o fuori dal giro, perché mi rendevo conto che era musica elettrizzante, ma non volevo o non riuscivo a crearla io stesso."

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Questa dichiarazione ha due aspetti interessanti. Il primo richiede di pensare a Sia, e in particolare a due pezzi a cui ha collaborato. Probabilmente è un caso, ma il suo cantato in "Déjà Vu" si appoggia su una melodia quasi identica alla sua parte nella canzone, a oggi inedita, "Wolves" di Kanye West, prodotta da West, Cashmere Cat e Sinjin Hawke. Eppure, mentre la prima è una sbobba tiepida e dimenticabile post-Blurred Lines, la seconda prende la stessa aria e la inserisce in un contesto di produzione tanto snervante quanto stimolante. "Déjà Vu" non sfoggia nessuna caratteristica moroderiana esplicita, mentre "Wolves" è sexy, inquietante, perversa e (che vi piaccia o meno) Kanye al cento percento.

Eppure l'inquietudine e la sensualità erano territori completamente familiari per Moroder. "I Feel Love" è una delle musiche più strane ad aver mai riempito un locale. Si avvolge su se stessa e poi esplode nella stratosfera, coniugando intimità estrema e scintillanza cosmica. Per cui qualcuno potrebbe dire che Moroder una volta ce la faceva, e ora non più. Be', questo ci porta al secondo aspetto interessante della sua considerazione sull'hip-hop. Oltre a dire che il rap lo ha lasciato sulla porta, le sue risposte all'intervista su Spin fanno anche riferimento al fatto che la cultura popolare si sia accordata alla sua sensibilità: "In radio ormai si sente solo disco europea".

Molto probabilmente sono queste le deboli fondamenta di questo progetto, ed è a causa di ciò che era destinato a deludere. È vero che la produzione ispirata alla disco è ritornata a essere un pilastro della musica pop contemporanea, ed è anche vero che molti grandi producer EDM sono europei che producono musica fatta coi synth. Tuttavia sarebbe un errore colossale dare per scontato che questo significhi che la musica abbia fatto "il giro" e sia ritornata alle origini. Certo, si possono ritrovare componenti passatiste nella musica popolare, ma lo sviluppo fino a oggi resta lineare. Non stiamo letteralmente riproponendo il passato e, checché ne dicano i detrattori, il suono di oggi è un ibrido molto più complesso di una semplice "nu-disco". Per un producer come Moroder che è rimasto fuori dal giro per trent'anni, questo cambio ha avuto proporzioni monumentali.

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La sfida era quella di riempire questo gap trentennale, ma invece di ritornare allo scoperto mantenendo intatta la sua identità, Moroder si è lasciato condizionare dai cliché più ovvi della produzione odierna. È riuscito a far suonare il suo album vagamente attuale, ma al costo di perdere completamente la sua originalità.

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Per dimostrarlo definitivamente, consideriamo uno dei primi successi di Moroder, la fantastica collaborazione con Philip Oakley "Together in Electric Dreams", paragonandolo al featuring di Kylie Minogue su Déjà Vu "Right Here, Right Now". Le canzoni non si assomigliano particolarmente, ma di base si tratta di due pezzi euro-pop ballabili. Entrambe puntano a quel grandioso ritornello pieno di pathos, ma solo una ci arriva. La collaborazione con Minogue non è atroce. A dir la verità, nella visione d'insieme dell'album, è una delle tracce migliori. Ma, in "Together in Electric Dreams", a Philip Oakley rimane lo spazio per respirare. La produzione di Moroder è riconoscibile nei dettagli e nelle sue peculiarità. Ci sono i riff di chitarra e i glissati sintetici che lo identificano senza possiblità di sbagliarsi. Ovviamente è una tamarrata colossale, ma quando il pezzo è così figo, chi se ne frega.

"Right Here, Right Now" invece sembra poggiarsi su tutto e su niente. Il pezzo non è male, e se uno fosse abbastanza ubriaco potrebbe pure mettersi a sbracciare un pochino, ma il suono di questa traccia e la sua trama sono completamente anonimi. Un po' David Guetta, un po' Mark Ronson, e nessuno in particolare. L'unico elemento leggermente moroderiano è il vocoder, che però ormai fa pensare di più ai Daft Punk, pensa.

Alla fine, ci rimane da riflettere sul genio e, soprattutto, sulla longevità del genio. Giorgio Moroder è assolutamente uno dei più importanti, influenti e prolifici producer nella storia della musica dance. Eppure è difficile immaginare i pezzi di Déjà Vu nella colonna sonora di un film Disney. Forse questo disco è la prova definitva che il genio non è una cosa che esiste di per sé. Il talento è una qualità che interagisce e risponde a una miriade di stimoli sociali, culturali, politici e tecnologici. Tra il 1976 e il 1986 il mondo che circondava Moroder sposava perfettamente le sue capacità. Il 2015 gli sarà anche parso un posto già visto, ma in realtà è cambiato più di quanto potesse capire.