FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Le feste patronali sono l'ultimo baluardo dell'underground in Italia

Balli di gruppo, lisci voluttuosi, litri di vino e una tendenza anarcoide che manca alle feste "normali." Ecco perché amiamo le sagre di paese.

“Domenica d’agosto che caldo fa/ la spiaggia è un girarrosto non servirà bere una bibita se in fondo all’anima sogno un oceano/ splash”

Questi immortali versi di Bobby Solo cadono a fagiolo per descrivere una classica situazione di disagio legata alle cosiddette ferie d’agosto: in questo periodo storico nel quale la compressione, oltre che alle hit più in voga, è applicata anche nel campo della vacanza (pur di non rimanere in città si concentrano in pochi giorni un mese ideale di ferie), la proposta musicale nelle piccole e amene località di mare a volte scarseggia, e nel cuore si sognano oceani di musica. Per gli amanti dei matinée o dello slego, tolta l’opzione discoteca tamarra, a volte può essere un inferno: non siete a Ibiza, nonostante i cocktail costino uguale. E se siete fan della roba “alternativa” / allergici alle cover rock, a parte qualche concerto jazz o qualche festival coraggioso represso immediatamente dalla polizia, evidentemente c’è poco da fare.

Pubblicità

La soluzione però è a portata di mano e ha sede nel luogo apparentemente meno godereccio e lungimirante del mondo: ovvero la parrocchia. Ebbene sì, le feste patronali estive in parrocchia hanno raggiunto uno stato dell’arte tale che possiamo definirle la salvata definitiva: ovviamente in prima linea, il vostro Demented non ha perso tempo per immergersi in una situazione ormai degna di essere studiata nei corsi universitari di etnomusicologia. Per la mia ricerca ho utilizzato come campione una località di mare che ometteremo per ragioni di pubblicità in cui ogni anno, intorno a ferragosto, si tiene la festa patronale della Madonna: nonostante non sia una novità, quest’anno alcuni particolari mi hanno portato a pensare che il fenomeno non sia più da prendere sottogamba.

Innanzitutto partiamo dalla scenografia: davanti alla chiesa spiccano dei bei festoni al neon e a LED, che raffigurano una Madonna stilizzata che sembra uscita dalla mano di Andrea Pazienza (assomiglia incredibilmente a Zanardi) e non sfigurerebbe in una mostra di Tracey Emin. Ai lati invece si stagliano due grandi illuminazioni animate la cui ambiguità non ci sfugge: sembra una mano che sorregge un bicchiere dal quale trabocca….Boh? Acqua? Vino? Probabilmente una cosa del genere collegata alla liturigia cattolica. Sennonché a un’attenta analisi sembrerebbe quasi …Ehm… Ecco, una mano che massaggia un membro paonazzo pronto a eiaculare?

Pubblicità

La sensazione che qualcosa non quadri prosegue nella zona cibarie: ogni festa patronale che si rispetti ha il suo angolo ristoro e in questo caso troviamo i classici panini con la salsiccia, porchetta e hamburger che possono essere farciti di verdure a volontà. In questo, diciamolo, non si è molto lontani dai servizi dei festival indierock più in voga d’estate (ad esempio mi viene in mente il Villa'n'Roll), celando nei prezzi proletari un’attitudine da centro sociale. Oltre a questo, la cosa che davvero da il La a quello che sto per raccontarvi è il vino: vino di qualità da rinomate cantine di zona, che per cinquanta centesimi al bicchiere si trasforma in un viaggio lisergico. Questo perché? Perché il rosso dolce, amici miei, è probabilmente allungato con la mescalina e il trebbiano con l’MDMA: tant’è che dopo il terzo bicchiere ti scatta una ridarella ingiustificata e guardi tutti con gli occhi a cuoricino. Una volta intrisi di quello che chiamerei senza timore di errore “il sangue di cristo”, ci buttiamo in pista. Quella da ballo s’intende.

Come ben sapete, il liscio è la musica che caratterizzava le sagre e le balere dei dopolavori operai, con quell’afrore d’ironia, doppi sensi e malizioso peccato. Ultimamente (dopo essere stato deriso per anni dai giovani rocchettari) è salito agli onori della cronaca musicale colta grazie a retrospettive come quelle di Federico Savini e co. Non esiste sagra senza l’idea dell’orchestra spettacolo, che forte di una padronanza musicale pari solo al virtuosismo del metal tecnico, a suon di mazurke e valzer metteva il pepe ai piedi di una generazione di ballerini provetti per cui il liscio aveva un rigoroso senso sociale, tanto che ci andavano proprio a scuola.

Pubblicità

Certo, i temi del liscio sono spesso antitetici alla morale della chiesa cattolica: basti ricordare i grandi versi de “La Droga” di Secondo e Raoul Casadei che paragonano il sesso a un potente stupefacente, ritratti in alcune raccolte d’annata con completini che rimandano direttamente all’eleganza no wave di un James Chance o di un Glenn Branca per non dire proprio di un Ornette Coleman periodo This is our music… ma in un’ ottica alla Don Camillo e Peppone, nel solco di un cattocomunismo che in Italia rasenta la confusione mentale, è sempre stato un sincretismo accettabilissimo (d’altronde in qualche modo si dovranno pure fare i figli no? I soldati di cristo non sono mai nati sotto i cavoli…) ma qui sta il punto: dai tempi in cui i Cccp Fedeli alla Linea cercavano un impossibile ibrido fra punk e liscio provocando il mondo alternativo con “Oh, Battagliero!”, le cose sono cambiate in maniera decisamente repentina se non totalmente accelerata.

Innanzitutto l’orchestra spettacolo è da molto tempo a questa parte sostituita da una tastiera MIDI che spara basi a raffica, controllata da un fisarmonicista che a volte parte di solismo, e da due cantanti rispettivamente maschile e femminile: sembra quasi di vedere… Che ne so… Un concerto di Geneva Jacuzzi o di Actress quando schiacciano i pulsantini e ciao.

Ovviamente ciò è dovuto all’ibridazione fra il sovracitato liscio e il ballo di gruppo, altro must delle feste in parrocchia: le basi le fanno da padrone e sembra tradursi in un perenne Alligalli (la versione storpiata dell’Hully Gully, il simpatico ballo made in anni Sessanta) che profuma di delirio puro. Un tempo relegato a espressione minore, l’Alligalli sembra oggi accorpare tutta la vasta gamma di balli nel suo seno, tanto che il pubblico sotto il palco, quasi come raverini in preda alla cassa dritta, esegue in trance tale danza anche quando l’orchestra spara una versione di "Smoke on the Water" in due quarti con una base tecno zanzarosa. Perché sì, il punto è che qui la contaminazione regna: c’è spazio anche per il consueto revival Sessanta/Settanta/Ottanta purché sia condito e massacrato da cassa dritta a pedalare, a volte con i BPM raddoppiati e arrangiamenti tra il plasticoso e Skrillex.

Pubblicità

Sembra quasi un happy hardcore liscio, in un improbabile sincretismo fra generi e mentalità, tanto che dopo un po’ non ci si capisce più un cazzo e vedi anche qualcuno che si mette a fare un valzer sopra il VERO tormentone dell’estate 2016 ovvero “Giga Gigolo’” di Dj Berta (un nome, un programma…), esempio puro e semplice di crossover fra techno, elettronica, italo disco, mazurka e coattaggine più totale. Alla fine Dj Paypal farebbe un figurone in questo contesto.

Tu dici suono in parrocchia, evidentemente dovrò mandare dei messaggi pro Gesù no? E invece ti ritrovi ad ascoltare brani che parlano senza tanti dubbi di “notti d’amore”, roba lasciva tra il rum e la cocaina delle cover tunz tunz di "Maracaibo", oppure dell’eroina di "Singapore” dei Nuovi Angeli o quel “Mueve la Colita” che non lascia spazio a interpretazioni alternative: dulcis in fundo addirittura è sdoganato il classico gay-oriented "YMCA", che appunto è uno sberleffo ai giovani cattolici.

Insomma, pare che Dio sia oramai dalla parte dei reietti, di quelli che allo spirito preferiscono la carne in un’orgia anarchica in cui alto e basso si danno la mano. Perché dal 1995 il ballo di gruppo è diventato un’epidemia, tanto da portare la FIDS a riconoscerlo quale disciplina sportiva col nome di C oreographic Team, facendo inorridire i maestri di ballo per il piglio totalmente anarcoide di un mondo nato quasi motu proprio, che per le caratteristiche di libertà infinita (nasce infatti da un’assenza di reali competenze, ma da un’evidente insana passione, tanto che possiamo definirlo “il pogo della gente qualunque”) è di per se antitesi dei rigidi balli di coppia maschile/femminile e dei relativi ruoli, l’unica regola è andare a tempo con la musica, spostando tutto in un’ottica musical-danzereccia completamente agender. La social dance è un fenomeno tutto italiano che non ha uguali all’estero, tanto che risulta incomprensibile in contesti avulsi dal nostro stivale, ma non quanto… Che ne so… La gente che lo balla di fronte a un disco di Carlos Giffoni quando cerca di fare il tecnuso.

Pubblicità

E poi non può mancare il discorso latinoamericano, con l’onnipresente cumbia, oramai passione dell’intellighenzia più underground, in cui a testi hot si risponde con arrangiamenti al limite della tecno brega, per accontentare anche i palati più interessati a questo trend. L’utilizzo di basi particolarmente “spinte” sulla cassa ha un grande precendete nel genere del “saltarello tecno” che ha fra i suoi punti di riferimento gente come Roby Santini, paladino del “techno folk abruzzese”: non a caso egli è un osannato produttore dance che prima dell’exploit del disco Il ragazzo di Campagna era la mente dietro ai bestseller The Soundlovers e Billy More.

Chi ci ha visto lungo in questo senso è stato Zucchero: il suo recente singolo “Partigiano Reggiano” è, come da previsioni del sottoscritto, stato suonato in piazza in una versione, inevitabilmente, migliore dell’originale. Il fatto che il Fornaciari si sia rivolto esclusivamente a un pubblico che frequenta le piazze è quasi il dito che indica il futuro della musica: la fine di Internet, la fine del pop italiano e l’inizio della “piazza”, appunto, come qualcosa di al contempo animato e inanimato, un cervello unico che però non funziona, un cortocircuito eterno nel fare e nel non fare, fra demonio e santità, qualità e merda, tecnologia e stomaco, politica e qualunquismo. Insomma, diciamo che le marcature sono saltate.

Certo non mancano gli zoccoli duri, quelli che ancora credono nel messaggio di Dio la cui parola si fece carne e non viceversa, quindi ecco la band cattolica, ma attenzione: non si tratta di christian rock o christian pop, ma di christian power funk. Tradotto, ci ritroviamo roba stile Dazz Band con testi di chiara matrice cristologica atta a lodare il signore, magari con una batterista minorenne che spacca i culi e una sezione chitarre da far piangere Nile Rodgers. Tutto questo per dire che “Gesù’ è salvezza e non religione” come scritto sotto la chiesa valdese sotto casa mia. Tutto chiaro, no? Ovvio che la musica sia lo specchio fedele di una complessa e precaria condizione esistenziale. Stessa cosa per le bancarelle, onnipresenti in queste manifestazioni: una volta ospitavano solo musica italiana di grido o hit estive neomelodiche e, appunto, dischi buoni per la balera. Adesso invece ci trovi a prezzi stracciati i digipack di intere collezioni prog italiane, con buona parte del catalogo citato in Superonda del buon Mattioli. Segno che oggi più che mai il pop non è una questione di suono, ma di commercio, di business, che è lo stesso che in un certo modo ha creato e sostiene il successo dei balli di gruppo, spesso nati come accompagnamento delle hit estive a volte imitando e stravolgendo a piacimento i passi dei video ufficiali correlati.

La gente cerca libertà di espressione e soprattutto libertà di errore. Come il karaoke, ultimo gesto punk dell’ uomo normale: pur essendo fondamentalmente esotico, questo “passatempo” tanto astruso non era. Lo stesso impunito noiser giapponese Violent Onsen Geisha dedicherà molti suoi lavori alla materia, ma gli intellettuali della musica forse non se ne sono mai accorti: tant’è che li vedi ancora storcere il naso di fronte a tanta dimostrazione di paganesimo irrazionale. Non si tratta semplicemente di anziani rincoglioniti, ma d’intere generazioni che in pista tentano di dare un ordine al caos primordiale. Sembra di trovarsi in una scena teatrale di Marinetti: negli occhi dei detrattori c’è “il velocista deluso, intristito nel solito piagnisteo contro i tempi troppo veloci che non concedono scelta, valutazione: ormai nemico di ogni improvvisazione”. Perché, volenti o nolenti, è indubbio che il futuro della musica si basi su buchi neri inquietanti nei quali è risucchiato di tutto e tutto rimane lì: e scoprirlo più in una festa provinciale in parrocchia che in un disco di Gaika significa che l’avanguardia ha trasbordato e i mutanti sono tra noi. D’altronde le campane oramai sono elettroniche.

Segui Demented su Twitter: @DementedThement