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Musica

Scrivere di musica mi ha fatto finire in un ospedale psichiatrico

A volte penso che dovrei cambiare mestiere, ma poi mi ricordo che non so fare nient'altro.

C'è un detto che recita: "scrivere di musica è come ballare di architettura". Forse lo conoscete. La paternità dell'aforisma è ciclicamente attribuita a Elvis Costello, Frank Zappa o Martin Mull, chiunque egli sia. Indipendentemente dalla sua origine, potrei affermare che sia stata proprio quella frase a convincermi che avrei voluto diventare un critico musicale, ma vi starei dicendo una bugia.

In realtà ho iniziato a scrivere di musica quasi per caso. Ero un cliché vivente: un musicista mancato che passava il suo tempo a criticare gli altri musicisti. La cosa divertente è che non conosco altri giornalisti musicali che abbiano seguito il mio stesso cursus honorum. Grazie a una particolare sequenza di eventi sono finito a scrivere per un magazine online, ora defunto. Era il 2011. La bolla di internet non era ancora esplosa a dovere e c'erano ancora un bel po' di soldi che giravano—c'erano ancora abbastanza investitori da permetterci di sopravvivere. In quel periodo ho acquisito la consapevolezza che non sarei mai diventato ricco, anzi, ai tempi ero proprio povero in canna, ma c'erano tanti lati positivi: CD gratis (roba che ora non vale una cicca), viaggi, pacche sulle spalle alle star—o quantomeno la possibilità di osservarle da lontano nelle aree VIP sperando di non essere beccato—l'opportunità di incontrare i miei eroi, entrare gratis ai concerti e, dulcis in fundo, alcol e droga a palate.

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Allora non avevamo orari ben definiti, i tempi erano molto rilassati, il che significava che stavo su fino a notte fonda e mi alzavo tardi la mattina, anzi, a volte proprio di primo pomeriggio, soprattutto quando la sera prima avevo fatto il compagnone con Bobby Gillespie. L'abuso di alcol e sostanze non era proprio una diretta conseguenza del mio lavoro, ma rappresentava un bonus, la benzina con cui accendere il mio motore e, nei casi più fortunati, darmi un po' di ispirazione. Durante la settimana uscivo per andare a sentirmi qualche band o artista mentre il loro PR mi martellava, mentre durante il weekend facevo festa, il che significava che bevevo parecchio, e mi aiutavo con la coca, così potevo stare su 60 ore di fila. La vivevo come una grande avventura. Poi, come dice John Cooper Clarke, “first it’s fun, then it isn’t, then it’s hell”. O, per dirla con parole mie, era tutto divertente fino a che non sono finito in un ospedale psichiatrico.

La dipendenza ha molte forme. È subdola e non fa discriminazioni di età, sesso, razza o ceto sociale, può colpirti sempre, chiunque tu sia, e si mette di traverso a qualsiasi percorso tu abbia intrapreso. Il "Grande Libro" degli Alcolisti Anonimi dice che l'alcol è "furbo, misterioso e potentissimo"—e anche se descrivere una sostanza a base di etanolo come un essere umano è una delle insensatezze che ti fanno perdere fiducia negli AA, capisco dove vogliono andare a parare. So bene che le droghe e gli alcolici fanno parte dei rischi del mestiere, quando lavori in ambito musicale. Nel tempo ho capito che l'abuso prolungato ha conseguenze molto serie sulla tua salute mentale.

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Non so come sia la situazione per i giovani reporter di oggi, i millennial sembrano più inquadrati e lontani dai cliché distruttivi del rock'n'roll. Oggi la salute mentale è un tema molto più discusso, nell'industria musicale, rispetto a quando ho iniziato a lavorarci, e la morte di Amy Winehouse nel 2011 ha fatto in modo che le conseguenze della cultura dell'eccesso venissero esposte a nuovi dibattiti. Quando intervistai Amy nel 2006 avevamo appena finito di ridere del cantante dei Keane che era andato in rehab per aver fatto overdose di Pimms.

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Certo, non ho mai sperimentato i veri, leggendari, eccessi della Babylon, in cui si diceva che la regina pippasse cocaina dalle teste di nani e Stevie Nicks facesse lo stesso dal culo delle spogliarelliste. Nei miei anni d'oro, però, i Novanta, la situazione era ancora bella incasinata. L'industria musicale viveva questo mito di doversi divertire per forza, anche quando in realtà stavamo tutti lavorando intensamente, sotto sotto. Allora ero abbastanza giovane e resistente per riuscire a sparare fuori storie e recensioni a un ritmo frenetico. Queste mie caratteristiche mi portarono ad essere assunto a tempo pieno.

All'inizio l'alcol faceva capolino durante i pranzi e alla sera. E ovviamente ai festival, luoghi in cui se non sei completamente sbronzo non sei nessuno. Piano piano, però, la mia routine al lavoro mi permise di iniziare a darci dentro più intensamente. Le birre diventarono la punteggiatura con cui prosavo i miei giorni. Se uscivo dall'ufficio per intervistare qualcuno, mi regalavo un momento di gioia al pub di sotto e un altro appena prima dell'intervista, poi un altro una volta finito il mio dovere. Mi ricordo che una volta mi trovai a parlare con Rufus Wainwright che puzzavo di alcol in modo imbarazzante e io stesso ero in condizioni imbarazzanti, senza nemmeno pensare che lui fosse uscito dal rehab non più di un anno prima.

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In poco tempo non solo mi sono ritrovato a portarmi di nascosto da bere al lavoro, ma ho anche iniziato ad andare al pub per mantenere il livello raggiunto la sera precedente ancora prima di entrare in ufficio. C'erano mattine in cui facevo colazione bevendo da una bottiglia di whisky che trovavo nel letto, o da una lattina di sidro che avevo sul comodino. Di pomeriggio davo fondo alle lattine che tenevo sotto la scrivania; non so se i miei capi se ne fossero accorti, ma non hanno mai detto niente. Era la mia vocazione, il mio sogno, ma il lavoro in sé era diventato un fattore secondario. Stavo iniziando a rendermi conto che una carriera nel giornalismo musicale era la copertura perfetta per chiunque volesse spaccarsi in pieno giorno. Le rockstar hanno un sacco di tempo libero per bere, certo, ma hanno anche un sacco di distrazioni: i viaggi, i concerti. Chi scrive di musica, invece, può passare metà della serata a guardare distrattamente il concerto dal bar e il giorno dopo a provare a mettere insieme gli eventi della sera prima decifrando qualche geroglifico che si era appuntato a caso, al buio, senza capire niente. Certo che, tolti i relativi lussi che vengono comunque concessi alle rockstar, questa quotidianità può trasformarsi in un inferno in un batter d’occhio. Dopo cinque anni di lavoro, la pila di CD mai ascoltati sulla mia scrivania mi mandava a male. Il progressivo fallimento di tutti i gruppi post-Libertines pieni di tizi con cappelli idioti che suonavano skiffle da fattoni mi mandava a male. Glastonbury—che, all’inizio, era la cosa più divertente che avessi mai sperimentato—mi mandava a male. Il fatto che bevessi era la causa o comunque uno dei fattori principali che contribuivano alla mia depressione ma, come succede a molti alcolizzati, era l’ultima cosa a cui avrei dato la colpa. Poi, attorno al 2009, ho smesso di bere (be', almeno per un po’). Mi ero stancato di venire derubato dai bancomat e di svegliarmi su bus notturni con le mutande umide, senza più il portafogli e il cellulare. La mia vita, per un breve periodo, migliorò, ma smettere di botto senza nessuno che mi desse una mano o che mi controllasse è stato come percorrere una strada solitaria e piena di ostacoli. I gruppi di supporto non mi sembravano una buona idea, in quei momenti, e non c’era certamente un manuale che avrei potuto consultare per capire come sopravvivere a una dipendenza lavorando nell’industria musicale. Sapevo che alcuni scrittori più vecchi di me, come Steven Wells e John Robb, avevano smesso di bere da tempo, ma non sapevo perché, e non mi andava di fidarmi o di chiedere loro qualhe consiglio. Non sapevo davvero da che parte girarmi e mi sentivo sull’orlo di una catastrofe. La cosa peggiore era la noia. Decisi che il miglior modo per combattere le strane sensazioni che la sobrietà generava in me era prendere un sacco di droghe. Tirare di coca senza aver prima bevuto mi faceva solo sentire impaurito. Non che me ne fregasse molto, dato che almeno mi faceva provare qualcosa di nuovo e diverso. Poi, all’All Tomorrow’s Parties di quel dicembre, ciò che ho creduto essere la risposta ai miei problemi mi si presentò di fronte in forma di una busta. “Provala”, disse uno dei miei colleghi.
“Che cos’è?” chiesi.
“Fertilizzante”, mi rispose.
E così conobbi il mefedrone. Quando mi salì, sentii una sensazione più o meno a metà tra coca ed ecstasy. L’effetto mi scese alla svelta, e ogni quarto d’ora circa mi veniva voglia di rifarmi. Ma non era un problema, dato che quella roba potevi comprarla su internet, e in cambio dei dati della tua carta di credito potevi fartela arrivare a casa in comode buste da cinque grammi, cinquanta sterline a botta. La cosa, comunque, diventò un problema. Riuscivo a fermarmi solo quando la busta era vuota—potevano volerci fino a quattro giorni—e poi mi mettevo a letto, completamente allucinato.

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Penserete che un’esperienza del genere potesse essere abbastanza per impedirmi di rifarlo, invece ordinavo buste sempre più regolarmente. Iniziai a predere peso e, all’improvviso, iniziai ad assomigliare a Lux Interior dei Cramps, il che era effettivamente piuttosto una figata, anche se nessuna delle persone che conoscevo sembrava pensarla così. Inoltre, non riuscivo a gestire i momenti in cui non avevo droghe sotto mano. E così iniziai di nuovo a bere. I miei amici si preoccuparono e, ancor peggio, iniziarono a stancarsi di me. Non avevo soldi. Poi la mia nuova ragazza, che avevo incontrato mentre ero pulito, mi mollò dicendomi di mettermi la testa a posto. Non c’era più bisogno di fare finta. Mi stavo auto-distruggendo e ne ero consapevole.

Quando il mefedrone venne vietato da Alan Johnson, il ministro dell’interno dell’epoca, decisi di ordinare un “party pach” di nuove droghe sintetiche per provarle e trovare qualcosa per rimpiazzarlo. La Benzo Fury sarebbe stata la mia rovina e, in molti sensi, anche la mia salvezza. Grazie a lei, ho completamente cancellato tre giorni della mia vita dai miei ricordi, ma fonti affidabili mi dicono che sono stato prelevato da un’ambulanza mentre provavo a tagliarmi con un rasoio. Avevo perso il controllo. Ripresi conoscenza in un letto d’ospedale il giorno dopo, in una cella, e ricordo che pensai “Non è andata bene.”

Pare che io mi fossi "costituito" volontariamente, ma più mi rendevo conto che l'ospedale era in realtà pieno di gente pazza, più tentavo di formulare scuse per andarmene. Invece, dopo un colloquio con lo psichiatra, fui confinato al reparto Salute Mentale. Ora tutto aveva assunto una forma nuova e mi vedevo già intrappolato là dentro per un tempo indefinito con una lunga barba bianca—la storia tragica di un'anima in pena scivolata nella rete e avrebbe passato il resto dei suoi giorni imprigionata. Dopodiché ritornai nell'area comune per guardare insieme agli altri i Mondiali di Calcio che quell'anno si svolgevano in Sudafrica. Il televisore a schermo piatto era ricoperto da un vetro rinforzato, dato che la tv precedente era stata distrutta con una sedia da uno dei pazienti. Ricordo di essermi chiesto se le vuvuzela che risuonavano tra i tifosi potessero fungere da trigger per qualche altro atto vandalico nei confronti della nuova TV. L’infermiera mi chiamò nel suo ufficio e mi lesse i nomi delle droghe che erano state trovate nel mio sangue. Era come se stesse leggendo una lista della spesa. “Vorresti non far sapere questa cosa a qualcuno in particolare?”, mi chiese. “Ehm, la polizia?” risposi, piuttosto confuso dalla domanda. All’inizio dicevo ai miei amici che mi sarei bevuto un “bicchiere della libertà” appena uscito. Pensavano tutti che fosse un’idea davvero terribile. Erano mesi che non mangiavo normalmente, e il mio cervello confuso stava chiedendo a gran voce proprio di ricominciare ad essere nutrito. Finalmente, iniziai a pensare razionalmente. Dopo quattro giorni, mi dissero che potevo andarmene. Era domenica e tutti gli psichiatri erano fuori a godersi i loro fine settimana, quindi mi dissero che non potevano più trattenermi lì contro il mio volere. Anche se mi chiesero di restare fino al giorno dopo per un’ultima visita.

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“Mi state dicendo che posso andarmene ora, senza problemi, oppure decidere di aspettare fino a domani. E che nel secondo caso potreste decidere che sono un malato mentale e tenermi chiuso qua dentro chissà per quanto?” “Sì.” Decisi di restare ancora una notte—non volevo avere dubbi sulla mia stessa sanità mentale (e, tra l’altro, il cibo era buonissimo) e il giorno seguente scoprii con felicità che sarei stato sommariamente dimesso.
Essere analizzato e trattenuto controvoglia per quattro, cinque giorni nell’ospedale di Homerton—mentre ero impazzito, in astinenza, spaventato e con tendenze suicide—era proprio il fondo che avevo bisogno di toccare. Ci sono persone che non si fermano nemmeno quando ci sono allarmi che gli squillano nelle orecchie a mille decibel. Alcuni non capiscono mai quando fermarsi, e le conseguenze sono inevitabilmente tragiche.

Cercai aiuto in diversi posti e in diversi modi, tra cui un programma di recupero ad Hackney che oggi non esiste più per colpa di tagli governativi. Andai da un analista bravissimo, feci i proverbiali dodici passi, imparai a meditare e affrontai alcuni problemi che avevo ignorato per tutta la mia vita adulta. L’anno successivo fu difficile: dovetti reimparare a fare tutto, anche le cose più semplici come interagire con gli altri senza l’aiuto dell’alcool o di altre sostanze. Ma alla fine ce l’ho fatta, anche se oggi sono decisamente meno socievole di prima. Ricordo che dissi mestamente al mio dottore, “Non può essere peggio di venire rinchiuso in un ospedale psichiatrico”. Avevo appena iniziato a curarmi e tremavo come un tamburello.
“Oh, credimi”, mi rispose. “Può essere molto peggio.”

Ora sono pulito, sobrio, da circa sei anni. Sono ancora un giornalista musicale e, spero, uno migliore di prima, dato che adesso sono in possesso di tutte le mie facoltà mentali. Se vado a un concerto o a un festival ora riesco a ricordarmi cos'ho visto. Ho una rete di supporto formata da alcuni colleghi che non bevono e nemmeno si drogano più, come me, e vengono da esperienze molto simili allla mia. Ora sembra che l'impianto culturale del music business sia più attento, i giovani artisti sembrano più giudiziosi, e mentre istintivamente mi sento molto poco "rock'n'roll", il fatto che il mito del rock in sé sia stato smantellato e appeso al chiodo mi tranquillizza. Va bene soffrire per l'arte, ma vale la pena morirci?

A volte penso che dovrei cambiare mestiere, ma poi mi ricordo che non so fare nient'altro. Se mai si liberasse un posto per ballare di architettura, fatemi un fischio.

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