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Musica

Deborah Feingold, alla ricerca di immagini tra i suoni

Intervista con una che ha fotografato proprio tutti, da Madonna a George Clinton a Brian Eno

In qualità di fotografo so bene quanto difficile possa essere ritrarre uno sconosciuto, mantenendo intatta la vera personalità della figura immortalata. Con un soggetto che non conosci personalmente, il processo richiede estrema attenzione verso l'indole del personaggio, oltre che all'abilità nell'adattarsi velocemente a cosa mette a proprio agio il soggetto stesso. Ne va della perfezione dell'immagine. A volte devi prendere le redini del tuo soggetto e dirigerlo, oppure—se sei fortunato—si crea tra te e lui una chimica innata. In ogni caso quello che devi fare è racchiudere tutta l'essenza di un personaggio in un unico fotogramma. La fotografa Deborah Feingold è una maestra in quest'arte: negli ultimi quattro decenni ha creato foto iconiche di famosi politici, attori o musicisti, e i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste e giornali come Rolling Stone, Il New York Times e Village Voice, per citarne soo alcuni. Music, la sua prima antologia di ritratti di musicisti, contiene scatti intimi di artisti leggendari tra cui Madonna, Prince, Mick Jagger e Brian Eno. Ho parlato con Deborah su quanto l'atto creativo della fotografia sia come comporre musica, sulla necessità di attribuire una priorità alle foto rispetto al dormire, e infine su come dare vita a fotografie indimenticabili, indipendentemente dalle condizioni.

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Noisey: Ho letto che tuo padre ti ha insegnato a sviluppare fotografie in una camera oscura al piano interrato quando avevi 12 anni. A quell'età avevi intenzione di diventare una fotografa professionista o era più un semplice hobby?

Deborah: Non sapevo potesse essere una vera professione. Sono nata nel 1951 e sono cresciuta nel Rhode Island. Lo amavo ma per me era un hobby, non pensavo "come potrei guadagnare facendo foto?", facevo cose che mi davano tanta gioia e soddisfazione. Non provenendo da una famiglia di creativi ma di lavoratori, non ricevevo molto incoraggiamento in quella direzione. Era più un "farai meglio a imparare a battere a macchina e prendere un diploma da insegnante". Perciò ho seguito il volere (dei miei genitori) ottenendo il diploma da insegnante ma non ho mai imparato a battere a macchina, sapevo benissimo che se avessi cominciato a farlo non avrei avuto molta scelta se non quella di diventare una segretaria. Da giovane non conoscevo molta gente che avesse a che fare con l'arte in generale.

Come sei passata dal diploma da insegnante al fotografare musicisti regolarmente?

Ho comunque coltivato l'hobby della fotografia ventiquattro ore su ventiquattro. Lavoravo in un negozio di macchine fotografiche e ovunque vivessi c'era sempre una camera oscura nella mia camera da letto. Ora credo di non ricordare molte cose dell'epoca per colpa degli agenti chimici per sviluppare le foto [ride], ma ho sempre portato questo hobby con me, senza mai rendermi conto che tutto ciò potesse assomigliare ad una carriera. Creavo di continuo e insegnavo alla gente a fare le foto, di solito ai disabili. Ho lavorato in moltissimi posti, tra cui una casa di riposo e ad un campo estivo per giovani cristiani, ma quando insegnavo, volevo che le persone imparassero ad usare la fotocamera come mezzo di espressione. Non era affatto un corso tecnico. Durante quel periodo, ogni volta che tornavo verso casa vedevo un uomo che lavorava al proprio camioncino, aggiustandolo o semplicemente lavandolo. Per farla breve: era un jazzista che viveva nel mio palazzo e che si era preso una cotta per me, perciò si palesava alle 4 in punto tutti i giorni mentre tornavo a casa. Pian piano ci affezionammo l'un l'altro e quel frequentarsi saltuariamente cambiò il mondo attorno a me. Mi innamorai perdutamente di lui, del suo stile di vita, della sua musica mai sentita fino ad allora e dell'intero processo di improvvisazione che ne fa parte. Per qualcuno cresciuto in un clima iper-protettivo era decisamente fuori dal comuni, era più un fatto di collaborazione creativa tra musicisti di una band e ne ero completamente attratta, così cominciai a ritrarli nelle mie foto mentre suonavano; andavo in cerca di scatti come loro andavano in cerca dei suoni durante l'improvvisazione. Da ciò nacque una vera storia d'amore ma io finii per trasferirmi a New York con un altro musicista di cui mi ero innamorata. Quest'ultimo aveva un amico alle prese con il lancio della propria etichetta jazz ed era stato in tour con Chet Baker, fu così che ottenni la mia prima sessione fotografica con Chet Baker.

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Madonna

Qual era il tuo equipaggiamento iniziale?

La prima 35mm che ho posseduto è stata una Yashica regalatami da mio padre, poi ho avuto una Honeywell Pentax. Quando mi sono trasferita a NY ho risparmiato qualche soldo e mi sono comprata una Nikkormat. In termini di peso, era come portare una automobile attorno al collo! Era pesantissima e per un bel pezzo ho avuto soltanto lenti da 50mm, senza apparecchiatura per il flash. C'è una foto di Bono nel book che è stata scattata con un riflettore d'argento da pittore e una lampada a bulbo da 100 Watt. Sono riuscita a fotografarlo nel mio appartamento, dove non c'era sufficiente luce ma la cosa ha funzionato! Una vera figata.

Hai iniziato con set fotografici nel tuo appartamento?

Già, Madonna era nel mio appartamento, ma ogni cosa lì dentro veniva messa da parte: mio letto veniva messo da parte, stessa sorte per la tavola. Così facendo ci poteva stare un telo senza cuciture per sfondo. Sembrava un piccolo studio fotografico sin dal momento in cui si varcava la porta d'ingresso, praticamente mi ero arresa all' idea che il mio sgabuzzino fosse diventato una camera oscura. Non ho potuto avere un mio studio separato fino a molti anni più tardi. La priorità era come sempre la fotografia e non avere un angolo per dormire.

A che punto della tua carriera hai scattato queste foto di Madonna? Avevi già avuto occasione di fotografarla?

Era il 1982 e io stavo lavorando per Musician Magazine, fu l'unica volta in cui l'idea dello shooting partì da me: chiesi alla rivista in questione se fosse stato possibile fissare una sessione di scatti con lei, ma in redazione nessuno era interessato. Così chiamai una rivista chiamata Star Hits, di cui conoscevo l'editor. Lui mi rispose "Sì, certo". Madonna si presentò con la propria agente pubblicitaria, Liz Rosenberg, non c'erano truccatori né manager, né tantomeno stylist. Quando Madonna entrò nel mio appartamento c'era una ragazza giovane ad assistermi, salutammo la star e ci mettemmo subito al lavoro. Scattai quattro rullini e in ogni fotogramma posò in maniera differente dal precedente. Avevamo entrambi ciò che volevamo, quindi se ne andò: eravamo semplicemente due ragazze che lavoravano nello stesso campo, senza inutili chiacchere. Ciò che rese magico quel momento fu che non dovetti affatto dirigere le sue pose perché sapeva perfettamente cosa fare, è stato come ballare insieme, lei dirigeva e io la seguivo in perfetta sintonia. Fu davvero emozionante, c'era qualcosa di diverso in lei, come un'aura di sicurezza che la distingueva da ogni cosa. Sono sicura che le persone riconoscano distintamente questa cosa guardando le foto, ci si chiede come potesse essere tanto sicura di sé. Era semplicemente sé stessa e questo traspare dalla pellicola nonostante la sua carriera fosse agli albori.

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Trovo davvero interessante il fatto che tu non abbia avuto bisogno di dirigerla. Di solito ti succede?

Preferisco non farlo. Quello che ho imparato è che non bisogna dare indicazioni che potrebbero impedire che il soggetto non si senta a suo agio. Meglio offrire la possibilità di esprimere sé stessi, preferisco immortalare le necessità del personaggio.

Al Green

Hai fatto un eccellente lavoro catturando le personalità dei musicisti, dal sorriso contagioso di Al Green alla sobrietà di Brian Eno. Cosa è stato necessario fare per evocare espressioni tanto pure?

Beh, per quanto riguarda Al Green, non gli ho mai rivolto la parola durante lo shooting. Era durante le prove di uno spettacolo di Broadway del 1982 chiamato Your Arm's Too Short to Box with God, con Pattie LaBelle, avevo un obbiettivo piuttosto lungo e potévo muovermi liberamente mentre gli attori provavano lo spettacolo. Nella foto in cui ride di profilo non ho avuto assolutamente alcun contatto con lui che avrebbe potuto influenzarlo, mentre nell'altra l'ho catturato mentre mi fissava. Ciò che amo degli scatti a Brian Eno, invece, è che entrambe le foto a mio parere riflettono la sua musica. Non aveva alcun problema ad appoggiarsi in quel modo al muro, non ricordo di preciso se gliel'avessi chiesto io o meno, ma la foto ha perfettamente senso. Sono perfette perché presentano una dimensione profondamente musicale.

Brian Eno

Le immagini di George Clinton mi ricordano quelle di Al Green: sono molto espressive, mentre Clinton appare particolarmente scatenato. Hai avuto un feeling con Clinton maggiore di quello con Green?

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All'epoca in cui iniziai, tra gli ultimi anni Settanta e i primi Ottanta, nessuno pagava per seguire i personaggi da fotografare, quindi molte foto venivano scattate negli uffici delle etichette discografiche. La sfida che mi sono data all'epoca era capire come fare sì che nessuno sapesse dove lo shooting si svolgesse, per cui molto spesso ero solita portarmi appresso uno sfondo di tela.
Molte di queste foto venivano scattate per conto di Musician Magazine e noi eravamo soltanto una rivista più piccola che non aveva minimamente i ganci che potrebbe avere invece Rolling Stone, ma ovviamente le cose cambiarono ben presto in nostro favore. La mia sfida personale era "Non c'è tempo per lamentarsi, ragazza mia! È l'occasione della tua vita, falla avverare!". Lavoro tutt'oggi con lo stesso spirito, puoi mettermi in una scatola vuota e io riuscirò sempre ad uscirmene con qualcosa di originale, senza ricorrere a truccatori o stylist come ho fatto per buona parte della mia carriera, non c'è un team dietro alle mie fotografie, ci siamo io e loro, talvolta il giornalista che sta scrivendo l'articolo. Quelle con George [Clinton] si distinguono da tutte le altre foto perché è stato lui a rendere il tutto così semplice e spontaneo. Ho dovuto fare ben poco, eravamo in una sala conferenze—il luogo non importa, ci si adatta con quello di cui si dispone—e ciò che ho sempre voluto fare era scattare una foto diversa da tutte quelle che avevo visto fino ad allora. Voilà.

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George Clinton

Scatti fotografie da così tanto che posso solo immaginare quante immagini tu possieda nell'archivio. Come è stato il processo di editing per il tuo nuovo libro, Music?

In realtà è stato davvero semplice, perché le parti che ritenevo più ardue si sono rivelate le più rapide da affrontare, super easy. Ho svolto un unico grande lavoro di edit e poi ho mostrato tutto al mio caro amico Matt Mc Ginley, che ha una ventina di anni in meno di me e mi assiste sui set, è anche lui un fotografo musicale e si occupa prevalentemente di rap. Così lui e un altro amico mi hanno dato una mano con l'editing. La sua età e il suo amore per la musica mi hanno aiutato molto a scremare tutto ciò di cui non avevo bisogno, semplicemente perché vedeva tutti gli scatti attraverso i suoi occhi da giovane fotografo amante della musica. Ciò che più mi spaventava era l'ordine con cui disporre le foto all'interno del libro. Per prima cosa si deve ordinare le immagini che vanno inserite in coppia e fare combaciare il lato sinistro con quello destro. Insieme ad una grafica editoriale che conosco abbiamo accoppiato tutte le foto in sole cinque ore, e un paio di settimane dopo ci abbiamo di nuovo lavorato su ordinando perfettamente tutti gli scatti. Ci abbiamo messo tre ore, poi abbiamo consegnato il tutto nelle mani di un altro grafico che ci ha messo del suo e il risultato è stato perfetto. Non potevo davvero credere che questa fosse in realtà la parte più semplice. Per quanto riguarda la copertina, non ce ne sarà mai un'altra al di fuori di questa. Non era esattamente quella voluta dal mio editore, ma non importa.

Don Cherry