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Musica

La dance music ha un problema di nostalgia

Fissandoci su di un passato che non abbiamo vissuto, abbiamo convertito il club in un parco giochi della musica dance, pieno di attrazioni a tema.

In una mano la stampa spiegazzata di un PDF, nell'altra una sigaretta rollata male e una lattina di birra. Siamo seduti in un bungalow post bellico, immutato dai tempi dell'invenzione dei teen-ager, noi, una manica di "adulti" intenti a programmare l'itinerario del nostro weekend al Bloc.

"Iniziamo con Hessle Audio, quindi Hudson Mohawke e poi ci ascoltiamo un po' di Modeselektor, torniamo per un altro paio di bicchieri e ci becchiamo Robert Hood". Spostiamo il nostro sguardo sul resto del weekend. "Moodyman, Carl Craig e Jeff Mills sono obbligatori, dopodiché Ben UFO e poi, be', prevediamo un sabato con World Unknown".

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Guardandomi attorno, noto che la folla è più o meno della mia età, ventenni lettori di blog con una buona ossatura e l'account pro di Soundcloud. Persone che, in mancanza di una definizione migliore, seguono la tendenza. La nozione stessa di tendenza mi ha tormentato per tutto il weekend. Quale pensiamo che sia il nostro trend? La selezione che abbiamo fatto, crudelmente evidenziata con una biro agonizzante, copriva il meglio degli ultimi quarant'anni della musica dance. C'era techno, house, acid house, jungle, trap, con buone possibilità di ascoltare garage e sfumature di drum'n'bass. Non stavamo seguendo una tendenza, le seguivamo tutte.

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È qualcosa che mi porto dietro dai tempi dell'università. Ho speso i venerdì notte dei miei diciannove anni indossando scarpe da ginnastica nelle garage night di seminterrati sudaticci, ad ascoltare techno e monochrome il sabato per poi abbandonarmi alla disco. Sapevo che stavo esagerando di settimana in settimana, non sapendo che forma avrebbero assunto quelle scorribande notturne. Eravamo viziati e le nottate passate fuori diventarono un buffet “all you can eat”. Saltavo da una festa funk ad una serata free-entry che era stata pubblicizzata all'inverosimile nel campus, durante la settimana. Questo era ciò che comportava appartenere alla generazione internet. Avevamo tutto a nostra disposizione e volevamo ballarlo, tutto. La libertà iniziò ad avere un costo. Eravamo condannati, pareva, a vivere nell'ombra dei mitici “ritorno agli anni”, un costante promemoria di come, anche se le cose apparivano belle, mai lo sarebbero state come lo erano una volta. E come avrebbero potuto? Belle quanto un “it's hard sometimes” che suona rimbalzando sull'erba morta di quel festival croato al quale sei andato, mai benedette dallo stesso orgoglio ed energia di quando Frankie Knuckles apparve per prima volta alle folle di Chicago. Era il loro momento. Possiamo sì apprezzarlo adesso, reatroattivamente, ma non possiamo farlo senza un costante richiamo a quegli anni.

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Il pericolo di quel pervasivo senso di nostalgia, dell'ossessione per i revival, è la sensazione di aver perso il nostro momento. Anche se suona un po' pessimista, e non sto suggerendo di distaccarci dalla storia della musica dance, non possiamo non fare i conti con l'idea che ci stiamo facendo andare bene cose che appartengono comunque al passato, e che probabilmente in passato erano meglio di quanto lo siano ora.

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Gli imperi musicali sono sempre sorti e caduti soltanto per risorgere ancora, ma dobbiamo riflettere sul fatto che stiamo raggiungendo il punto di saturazione. Il processo naturale per cui i movimenti culturali vengono sommersi per poi tornare a galla viene forzato dalla condizione attuale della musica, che sta prendendo a piene mani dagli ultimi 40 anni della musica dance. In un momento in cui Internet ci permette di accedere ad ogni traccia con un paio di click, i DJ e producer non solo stanno spolverando parti a caso di vecchie forme espressive, ma ci stanno letteralmente mangiando sopra. Carl Craig che organizza il Detroit Love Tour, Dj Luck e MC Neat passano solo garage old school, Prins Thomas e Dimitri From Paris riportano alla ribalta lo Studio 54: siamo inondati da innumerevoli opportunità di rivivere le glorie del passato. Fissandoci su di un passato che non abbiamo vissuto, abbiamo convertito il club in un parco giochi della musica dance, pieno di attrazioni a tema. Di fatto, secondo i rinomati recensori di Internet (proprio come me), negli ultimi cinque anni il Regno Unito ha vissuto un revival garage, un revival jungle, un revival drum'n'bass, un revival disco, uno house e uno industrial techno. Siamo intrappolati in uno stato perpetuo di revival, ci guardiamo talmente tanto alle spalle da dimenticarci cosa abbiamo di fronte oggi.

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Avevo voglia di confrontarmi con altri su queste mie riflessioni, anche solo per verificare di non essere io a vivere la situazione in modo drammatico. Il primo nome a venirmi in mente fu quello di Simon Reynolds. Come critico musicale e teorico, ha spesso affrontato queste tematiche, in particolare nel suo libro Retromania, che esplora l'ossessione della cultura pop nei confronti del proprio passato. Reynolds è anche l'autore del fondamentale Energy Flash, uno dei pochi libri degni di nota che considerano la musica dance qualcosa di più di quella roba che ti ascolti nei club. Dato che ha passato parecchio tempo a riflettere su questo fenomeno, Reynolds ha subito tirato fuori la natura ciclica del revivalismo: “Quando un qualunque genere musicale o movimento esiste da un po', la sua storia si fa consistente, e rivisitare gli stili che hanno una storia solida alle proprie spalle è una tentazione sempre più forte.” Dj Harvey, per quanto possa essere innovativo, è prima di tutto noto per la sua dedizione storiografica alla disco. Mi ha detto cose non lontane dalle opinioni di Reynolds. “Nulla cambia davvero. Non puoi guardare avanti perché non c'è futuro, conosciamo solo il nostro passato, quindi bisogna per forza guardare a quel passato, anche perché buona parte di quello che c'era era validissima”. Nonostante la sua teoria—che a grandi linee è un eterno ritorno delle stesse sonorità—recentemente ha percepito un cambio di rotta. “Stavo guardando un video di un giovane DJ e la sua musica proveniva tutta da 25 anni prima. E in quel momento ho pensato: ma io nel 1976 suonavo robe del 1949? La risposta è no. L'ho trovato davvero retrò.”

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Parte di questo nuovo punto di saturazione potrebbe essere il desiderio di rispondere, per quanto possibile, alla sola nuova scena emersa nella musica dance negli ultimi anni: la cosiddetta EDM. E, per gran parte, le reazioni alla mentalità commerciale e al mercato mainstream sono state regressive. Ci siamo basati sul passato per “combattere” ciò che non ci piaceva del presente. Prendiamo l'evento recentemente annunciato da Seth Troxler, chiamato Acid Future. Sembrerebbe una roba parecchio figa, darà a parecchi giovanissimi la possibilità di consumare ulteriormente le proprie sneakers vintage e rivivere quell'epoca d'oro. L'evento è già stato etichettato come "La risposta alla dominazione dell'EDM", che Troxler contrasta. Sembrerebbe una galvanizzante chiamata alle armi, in virtù dei "buoni vecchi valori". Tutto ok, però se vista in reazione a un "problema", non porterà sicuramente nulla di nuovo. Non sono sicuro che fingere che sia ancora l'89, che Skrillex abbia ancora il pannolino, possa essere d'aiuto sul lungo periodo.

Reynolds sostiene che rifiutare l'EDM potrebbe essere un'occasione mancata. “Penso che la scena EDM abbia la giusta attitudine, ovvero quella di fregarsene del passato: si parla di DJ, producer e fruitori totalmente immersi nel presente. Non si curano della storia e non ostentano nessuna sorta di reverenza per una tradizione che sembra essere intrinseca a scene come quella della deep house o della techno." Potrebbe essere un boccone amaro da mandar giù, ma Reynolds ha ragione. Possiamo anche pensare di ascoltare musica migliore, ma stiamo vivendo il presente? “Detto questo,” aggiunge Reynold, “l'EDM stessa, però, è una sorta di miscuglio di house, trance, electro e dubstep, con una produzione iper-digitale, quindi neanch'essa è particolarmente futuristica.” Le lineup dei nostri festival e delle nostre serate sono zeppe di "maestri", ci immergiamo in retrospettive, sapendo già che saranno una figata, perché sappiamo di che si tratta. Ci siamo forse un po' arroccati in una "comfort zone" per via della quale teniamo distante il rischio del nuovo, di ciò che non abbiamo provato. L'ho appreso in modo elementare. Ovviamente, e parlo da ventenne, ho una stima immensa per chi ha fatto la storia. Ma, mentre nel rock alternativo o nell'hip-hop sperimentale la sfida è trovare suoni totalmente nuovi, la musica dance sembra fissata sul concetto di riscoperta, forse anche a causa dell'attività culturale cui un buon DJ è tenuto, se vuole ottenere rispetto. Chiunque sia in grado di scavare più profondamente, esce dall'altra parte, in cima. C'è un po' di passatismo, in parte giustificato, ma in parte ingiustificabile.

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La domanda, quindi, è: quali sono le nuove scene, le nuove sonorità sui cui invece si dovrebbe puntare? Oneman è un DJ che ha scelto una linea interessante per la musica che suona. Con una mano, scava nella sua carriera decennale che lo vede mischiare garage, funky e dubstep e con l'altra punta a oggi, il risultato è una miscela, nei suoi set, tra grime dei giorni nostri e hip-hop. I suoi pensieri sullo stato attuale non sono comunque ottimistici. “Non vedo niente all'orizzonte con cui io voglia davvero avere a che fare. L'ultima grande scena, per me, fu la roba di Jersey, di Fade to Mind, ma ho la sensazione che si stia degenerando. Musicalmente parlando, sto a guardare. Aspetto che qualcosa di grosso accada.” Realizzare cosa sia esattamente questo “qualcosa di
grosso” è complicato. La maggior parte delle figure che emergono si sta facendo un nome riproponendo vecchie tecniche. I loro suoni sono nuovi, ma sono anche dei mélange—creano musica brillante, ma carente di quell'originalità che rappresenterebbe un nuovo mood.

Scuba, un altro DJ e produttore che ha cavalcato più generi, dalla dubstep all'house alla techno, ha fatto da eco per quest'idea. "Leggevo di un presunto nuovo genere chiamato Deep Tech che è apparentemente molto in voga in UK. Magari lo è, ma suona come pessima tech house”. Simon Reynolds forse dà il meglio di sé quando mi dice cosa ne pensa sulla nascita del Disclosure. “Talvolta è un poco scoraggiante per qualcuno come me, che ha partecipato ad una moltitudine di fasi appena nate, vedere i Disclosure tornare indietro al 2step garage—anzi è un po' inquietante come quel sound sia stato riproposto”.

Forse l'altro problema è che la prima linea di sperimentazione nella musica elettronica non fa musica “per” i club.L'album di Arca, Xen, uscito l'anno scorso, era un'autentica collezione di melodie elettroniche distorte e beat spezzati, che nell'ambiente dei club risultava più simile ad una installazione artistica—anche grazie all'accostamento con l'arte visuale di Jesse Kanda, l'esperienza dal vivo non è tanto ballabile, quanto contemplativa. Poi ci sono i ragazzi di PC Music, che hanno fatto una sorta di “dance nominale” che si spinge tanto a fondo nel territorio del pop che suonarla in un contesto quale quello dei club potrebbe risultare una mossa azzardata.

La musica dance originale e la produzione elettronica sono passate dall'essere una cultura da club ad una web-culture. Laddove i primi ascoltatori dell'hardcore erano chiusi in uno spazio preciso, quello dei rave illegali, i produttori di oggi buttano fuori tracce per un pubblico online con una bassa soglia d'attenzione. La loro musica richiede immediatezza per sopravvivere, e così facendo non ha la possibiità di manifestarsi in un contesto fisico. Poi c'è la questione spinosa della chiusura dei club, con locali che spariscono più velocemente delle lucciole, che fa supporre che nessun tipo di movimento fisico, relativo ad uno spazio in particolare, possa resistere a lungo. Si aggiunge la morsa della tecnologia. Mentre Internet si comporta come un'enciclopedia, a mancare sono le innovazioni nella strumentazione e produzione che caratterizzavano i precedenti movimenti. Come la mette Reynolds, “è difficile fare suoni innovativi, una dance mai sentita prima, perché molti picchi sono stati raggiunti negli anni Novanta, in termini di velocità, minimalismo, rumore. È da un po' che non viene fuori un nuovo meccanismo in grado di creare un nuovo assetto mentale nei producer."

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Cosa che ci riporta al punto di partenza. Stanno accadendo cose nuove, ma non c'è nessun movimento aggregante, nessuna scena. Forse è qui il problema, o al limite il fraintendimento. La musica dance avrà pure un problema con la nostalgia, sarà anche troppo radicata nel passato, ma la questione è più ampia e include i grossi cambiamenti nella stessa concezione di dance music. Che la definizione di sottoculture emergenti oggi sia un paradigma ridondante? Dopotutto viviamo in un mondo di gloriose possibiità, dove una persona può impazzire, nello stesso festival, per il future-trap di Hudson Mohawke o per un back to back di Ben Klock e Marcell Dettman. Mentre mi lamento degli effetti soffocanti del passatismo, mi ritengo privilegiato ad aver vissuto tempi pieni di musica sconvolgente, di quella che ti prende al primo ascolto. Forse la dance music si sta solo prendendo del tempo per apprezzare tutto quanto di buono è stato raggiunto. La mia sola preoccupazione ricorrente è come verrà ricordato questo momento storico in cui la storia è dipanata e messa tutta sullo stesso piatto. Un po' invidio la generezione che mi ha preceduto, coloro a cui basta guardare un'immagine, un outfit, sentire una traccia o mettere piede in un club per ricollegare queste sensazioni ad un momento preciso, ad un senso di appartenenza. Fatico a credere che la musica di oggi farà lo stesso per me. A meno che, quando mi guarderò indietro, io mi ricordi che questo momento era il momento del tutto.