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Musica

Colonne Sonore Bellissime: Under The Skin

Lo scorso anno sono usciti pochissimi film belli quanto "Under The Skin" e nessuna colonna sonora potente quanto la sua. Ecco che ne pensiamo noi.

It sounds creepy, but we were going for sexy.” Ho trovato questa frase in una breve autonarrazione che l’autrice della colonna sonora di Under The Skin, Mica Levi, ha scritto per il Guardian. In un certo senso non poteva andarle meglio: in questo modo, l'occhio realistaa/oggettivante che Jonathan Glazer ha ricercato ossessivamente nella regia del film, si consuma anche nella musica. In fondo, la perversione viscida e fastidiosa che percepiamo negli altri nasce sempre con l’intenzione di essere sexy, di iniziare uno scambio di desideri e stimoli. Si consuma invece tutto dalla parte di un corpo solo, mentre l’altro si sente invaso e vittima, preda, bestiame.

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Gli esseri umani, in Under The Skin, sono esattamente prede. Potrebbero anche essere bestiame, in effetti… Per quanto ne sappiamo noi potrebbero venire allevati e pascolati in una capsula di petri grossa un pianeta intero, infiltrati a tappeto da una razza aliena che viene a mietere non si sa bene cosa, non si sa bene perché. Che siano prede o allevati come merce, il compito della protagonista Laura è sempre lo stesso: adescare, catturare e mietere, spremere via il necessario dal corpo e dalla vita dei maschi umani che incontra. Diversamente da creature come quelle di Alien o Species, lei non agisce per istinto, ha anzi un compito preciso ed è proprio quando istinti e sentimenti iniziano a mettersi in mezzo che si ritrova incapace di compiere il suo dovere.

In quanto femmina aliena, scopre di essere tanto aliena a questo mondo quanto una femmina umana. Scopre di non essere libera di far parlare il proprio corpo se non entro un linguaggio preordinato di input e risposte. Un linguaggio che la regia stessa ha provato a sperimentare empiricamente, fornendo a Scarlett Johansson solo poche linee guida e l’obiettivo di rimorchiare passanti ignari, inconsapevoli attori del proprio desiderio.
La crudeltà dell’aliena non è reale, non corrisponde alla crudezza dei suoi desideri, è solo uno sforzo linguistico, una lingua sterile che gioca con il piano più basso delle fantasie, quello informato da un corpo hollywoodiano, da una bellezza de-privata. Il suo vero corpo rimane inesplorato e impossibilitato a sforgarsi, quello finto resta un’enigma, un vocabolario di cui non si capisce la vera provenienza né le regole fondamentali. Un guscio umano che diventa gabbia per tutti, per lei prima ancora che per i maschi che annega dentro di sé.

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La musica che Mica Levi ha composto per sorreggere il film funziona più o meno allo stesso modo: composta quasi esclusivamente con un unico strumento, la viola, successivamente arrangiata per quartetto d’archi e poi ancora completamente violentata, riposseduta da un corpo diverso che indossa il suono di violino, viola, violoncello e contrabbasso esattamente come la pelle sintetica del film. Tanto il corpo sonoro di quegli strumenti come il loro ruolo nello sviluppo di tensione e orrore vengono ridiscussi. La violenza delle immagini non è mai catartica, mai climatica, mai indirizzata verso un singolo gesto di annientamento emotivo finale. Allo stesso modo, nel sonoro la tensione non si risolve, trasformandosi in un drone di violenza industriale passivo-aggressiva, priva di rabbia ma piena di asettici orrori quotidiani. I beat lenti sembrano voler generare più banalità che dramma, una routine soffocante come l’aria umida e pesante di Glasgow (in cui è ambientato il film).

Per questa ragione, la classica struttura da colonna sonora—l’uso di variazioni su un tema ricorrente—qui viene esasperato fino a rendere le variazioni tonali più simili a un vago squilibrio, a variazioni di temperatura e pressione sulla carne di un suono monogrammatico. L’unica differenza sonora consistente è in “Love” il brano che corrisponde al tentativo di Laura di abbandonare la sua missione, non tanto per amore quanto per il grandissimo dubbio che l’esistenza di qualcosa chiamato amore e l’affetto umano rappresentano per lei. Si abbandona alla tenerezza di un uomo che di fatto la prende senza farle troppe domande. Ancora una volta, la violenza è sottile, ma lei ci si consegna per pura ignoranza, pensando e forse sperando che quello possa essere amore. Il pezzo è gelido, soffocato, come se una melodia stesse morendo sotto metri di acqua ghiacciata.

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Per il resto, sembra quasi che tutti i corpi e tutti gli spazi abbiano lo stesso suono, che sia solo la velocità a cui vibrano a fare la differenza. I passi incerti del ragazzo malato di neurofibromatosi lo allontanano dalla velocità implacabile dell’incomprensibile motociclista. Nonostante questo, però, nel film non ci sono dei veri personaggi oltre a Laura: degli altri lei incrocia le chiacchiere e i pochi dati biografici, incrocia i loro tic e i gesti che compiono in fase di approccio e rimorchio, le loro mire nei suoi confronti. Sono tutti gesti che vengono rivolti a lei e non vediamo nessuno degli altri personaggi fare qualcosa a o per sé stesso. I loro limiti sono l’unico orizzonte di sincerità nel loro apparire. Non si va oltre, c’è un muro di finzione in mezzo, c’è un muro sonoro di corde tese su velocità che non gli appartengono, tutte tirate al di là dello sforzo emotivo. C’è soprattutto il nero in cui le prede annegano quando cercano di toccare Laura. Il suono di quegli archi è tanto concretamente nero quanto kitsch in maniera straniante. Mica Levi racconta di essersi ispirata tanto a Giacinto Scelsi quanto alla musica da striptease e alla “dance music più estatica”, appropriandosi solo e unicamente degli strumenti ritmici in cui questa suggerisce erotismo e movimento, appesantendola poi di tutto il male che normalmente i toni upbeat vorrebbero estromettere. In questo modo decostruisce il suo stesso passato indie-pop in Micachu & the Shades, così come Scarlett Johansson decostruisce il suo statuto erotico-mediatico. Le espressività di di entrambe sono corpi un tempo levigati e convessi, che qui di colpo rivelano le proprie cavità nascoste, le crepe nella loro identità, i buchi nel loro linguaggio.

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Kaleem Aftab dell Independent ha scritto, cercando invano di smontare il film, che le scene in cui Laura sopraffà le sue vittime “sembrano la pubblicità di un profumo”. È vero, ma è uno dei punti di forza del film: usano i significanti che rapresentano la seduzione così come abbiamo imparato a conoscerla dai media, completamente estetizzata e inoffensiva. La riempiono di una violenza che non rompe però con l’armonia del tutto, anzi è essa stessa l’armonia. La musica qua si fa portatrice sana di un male incurabile: slabbrando i toni stucchevoli del trip-hop plastificato pseduo-badalamentiano da Campari, trasformandoli in qualcosa di veramente malvagio, ma di cui è impossibile carpire esattamente da dove e come si sviluppi la sua cattiveria. Gli uomini sembrano attratti in un mondo completamente lucido e liscio, da cui sembra essere bandito ogni rischio di castrazione, non sapendo però che è proprio lì che la castrazione si nasconde.

Quello che è davvero vietato a tutti in questo film è il godimento. Persino chi esercita un’autorità su Laura, il motociclista che appare ogni volta che lei sbaglia o disobbedisce, non sembra libidinalmente coinvolto nell’affare, agisce per dovere di ruolo, per disciplina e funzione sociale. Questo spazio di immobilità è generato grazie all’impossibilità della musica di provare ad essere realmente narrativa: le mancano volutamente le articolazioni per muoversi in quella direzione. Non c’è niente da raccontare se non l’impossibilità stessa a raccontarsi, a viversi e provare piacere o dolore. La morte stessa non è mai accompagnata da lamenti né rantoli: non è possibile emettere suoni che mettano fine al vuoto, ma solo far rieccheggiare quello stesso vuoto nel suono delle scene. Il finale del film, per quanto apparentemente climatico, non lo è affatto: non c’è nessuna liberazione, la ripetitività industriale della caccia di Laura suggerisce che ce ne sono e saranno molte altre come lei, altri motocilisti, altro bestiame. La sua fine ci ricorda semmai quanto siano comunque i maschi a generare questa violenza costante e piatta, anche servendosi di lei come simulacro dei loro stessi impulsi e delle loro paure più patetiche. Altri episodi di adescamento e sfruttamento seguiranno, e avranno tutti lo stesso suono narcotizzato e viscido, affaticato oltre l’impossibilità di vivere.

Glazer e la Levi hanno realizzato montaggio e soundtrack praticamente fianco a fianco, non nello stesso studio ma a pochi passi luno dall’altra. L’andamento è, infatti, perfettamente sincronico, suono e immagine trovano una simbiosi completa nel discorso brutalmente disincarnato, calcificato post-carne. La pelle rivelata di lei era nascosta sotto le sembianze pop, ed è stata ora svelata per vedersi bruciare, come quella di Laura. Non è detto di sapere quanto dolore le porti, quanti strati manchino ancora allo svelamento completo, sappiamo solo che gente esperta e seria come Kevin Martin e Stephen O'Malley hanno indicato la soundtrack tra i loro dischi preferiti del 2014. In fondo, il suo suono non è tanto lontano da quello di Vessel o dei Raime. Insomma, è difficile non pensare che un lavoro così personale e forte non si sarebbe potuto fare senza un certo livello di coinvolgimento. In ogni caso, sono stati davvero scarsi i film negli ultimi anni dotati di un lavoro sulla musica così efficace e intenso. Se comunque non vogliamo considerare Under The Skin vicino allo stato di capolavoro, la sua colonna sonora sicuramente lo sfiora.

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