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Musica

Colonne Sonore Bellissime: Hollywood Party

Stavolta si va sul classicissimo, con le tirate eclettiche di Henry Mancini per il capolavoro comico di Blake Edwards

C'è del singolare nella colonna sonora bellissima di cui vi parleremo oggi. Non tanto perché sia molto bella, piuttosto perché ricopre un ruolo stranamente marginale rispetto al film comico per cui è stata assemblata. Sembra quasi che attenda nella penombra del sottofondo—a volte anche molti minuti—per poi palesarsi in tutta la sua vanitosa magnificenza, come se sentisse una sorta di gelosia nei confronti delle immagini. Il risultato finale, che nella versione originale si intitola solo The Party, è comunque uno dei film comici più esilaranti che siano mai stati catturati da una cinepresa, anche grazie all'interpretazione di quel genio maledetto di Peter Sellers nei panni dell'aspirante attore indiano Hrundi Bakshi.

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(Hollywood Party è la storia di un indiano che combina un casino allucinante alla festa pettinata di un produttore hollywoodiano)

Soltanto dopo una decina di minuti dall'inizio viene concesso allo spettatore di fruire delle prime note musicali. Mentre Bakshi, seduto sul pavimento del proprio soggiorno, pizzica le corde metalliche del suo sitar e sembra sempre più prossimo al Nirvana, un mucchio di posta cade fragorosamente per terra dalla feritoia sulla porta d'ingresso, interrompendo lo stato di concentrazione mistica. Tra queste missive spunta l'invito ad una festa di gala che si terrà presso la villa hollywoodiana dell'ex generale ora produttore cinematografico Fred Clutterbuck, che per un equivoco plautiano aveva erroneamente inserito il nome di Bakshi nella lista degli invitati. A quel punto partono i titoli di testa e, finalmente, il tema musicale.

Blake Edwards era un furbone mica da ridere e sapeva svolgere egregiamente il proprio mestiere di produttore/regista. Quella di affiancare l'esotismo di un mondo misterioso, affascinante come quello del subcontinente indiano (per quanto tramite uno stereotipo che oggi ci appare pure un po'razzista) all'ormai affermato movimento hippie è stata di certo una mossa astuta, soprattutto se si considera che questa pellicola è uscita nelle sale di proiezione il 4 aprile del 1968 (data che conosciamo anche per un altro avvenimento non tanto lieto). Lo strumentale del tema si appoggia sulla mastodontica ondata della British Invasion, quella che a partire dal '64 dalle bianche scogliere di sua maestà si è espansa in tutto il mondo, esportando musicisti col caschetto di cui spero non servano esempi. Ma c'è qualcosa di estraneo, poco british e troppo jazz, che tuttavia calza a pennello nel brano: un riff di fiati super accattivante che ritorna spesso nel tema sotto forma di un'ostinata frase ricorsiva, è la firma inconfondibile che tradisce la presenza del vero protagonista di questa colonna sonora che più bella non si può.

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Dietro c'è infatti Henry Mancini, nato Enrico Nicola Mancini da immigrati abruzzesi in Ohio, compositore per questo e per alcuni tra i film più famosi di sempre: Colazione da Tiffany, La Pantera Rosa, per dire, ma anche per la fichissima serie poliziesca Peter Gunn, per cui sforna un tema che poi verrà riadattato e reso famoso dai Blues Brothers. Compositore e arrangiatore prolificissimo, le sue creazioni gli hanno garantito onorificenze riassumibili in quattro Oscar, venti Grammy e due Emmy Awards.

Tornando al film: Dopo aver combinato una sequela di casini tra i più illustri casi umani invitati alla corte di Clutterbuck, l'imbranato di Bakshi si imbatte nella dolce figura dell'attrice Michèle Monet, interpretata dall'incantevole Claudine Longet, che a pensarci bene non si è vista più tanto in giro da quando nel 1976 ha pensato bene di SPARARE al partner Spider Sabich uccidendolo durante un lietisssssimo soggiorno tra le montagne di Aspen, Colorado. Questo tragico evento rende la visione del film ancor più divertente per noi brutte persone, specialmente quando il personaggio della Longet intrattiene il pubblico degli invitati con "Nothing To Lose", una sensuale bossa nova per chitarra classica e immancabile trio jazz in continua improvvisazione di sottofondo.

Molti ricorderanno di questo film la scena in cui Bakshi si ritrova di fronte alla gigantesca voliera in cui troneggia un maestoso pappagallo Ara gialloblu chiamato Birdie Num Num, nome che peraltro ha ispirato un gruppo francese

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che tanto amiamo.

Il protagonista, estasiato dalla visione dell'animale, sente di colpo l'insana necessità di nutrire la creatura con della semenza rinvenuta nei paraggi. Inizia così una scenadelirante con Hrundi Bakshi che lancia manciate di semi alla gabbia nello stupore della sala: gag per cui l'estro di Mancini ha forgiato uno strumentale lounge dai rimandi swing su una ritmica surf molto delicata. Detta così sembra una forzatura orrenda, un misto di generi a caso, ma come sempre meglio lasciare che sia l'udito a sentenziare.

La festa è ormai allo sbando più totale, metà dei camerieri sono sbronzi marci e un mucchio di giovani fricchettoni guidato da Bakshi sta lavando via delle scritte di protesta da un elefante dentro alla piscina della villa, invasa da un metro e mezzo di schiuma. Nonostante il trambusto e la massa di blle chiuma che arriva all'ombelico, i musicisti del trio jazz continuano ad improvvisare, lanciati in una trance di settime e progressioni armoniche. È la rivincita che Mancini si prende su Edwards e sul mondo insano e caotico dell'industria cinematografica, mettendo lo spettatore davanti a una metafora di rivalsa della colonna sonora—e più in generale della musica—su una regia che, rispetto agli altri film a cui Mancini aveva già lavorato, si era comunque concessa più libertà del solito.

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