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Musica

Non avete capito la seconda stagione di True Detective perché non l'avete ascoltata bene

La colonna sonora curata da T Bone Burnett è il filo conduttore di una serie fondata sulle contorsioni della psiche.

Durante l’estate la seconda stagione di True Detective, probabilmente a causa delle grandi aspettative formatesi dopo l’enorme successo della prima creatura televisiva di Nic Pizzolatto, ha assunto il ruolo di vittima sacrificale sin dai titoli di apertura, diventando il bersaglio di un pubblico pigro e brontolone, più interessato a lanciare un tweet pungente e ironico che a elaborare un giudizio completo ed efficace.

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È senz’altro pretestuoso fare paragoni tra le due stagioni, trattandosi di due lavori completamente separati e a se stanti, con protagonisti diversi, una nuova trama, ambientazioni, tematiche e persino registi diversi. È altrettanto facile far sfigurare i nuovi personaggi, se giudicati con gli stessi termini con cui si giudica il McConaughey/Cohle della prima stagione, semi-divino, nichilista, eremitico, belloccio, odiato ma rispettato, bravissimo nel fare il suo lavoro, cinico, solitario e infallibile. Anche perché, semmai, andrebbe notato il contrasto tra quel tipo di perfezione irreale e l’umanità fallimentare dei vari Colin Farrell & co.

L'unica continuità che possiamo vedere tra le due stagioni sta proprio nella colonna sonora, curata ancora una volta da T Bone Burnett, che non lascia molto spazio alle puntualizzazioni degli schizzinosi. La tracklist è di altissimo livello, forse superiore a quella della prima stagione anche solo per il merito di fondersi perfettamente con le immagini e gli svolgimenti della trama, che arricchisce di concetti e di emotività, supportando alcune scene laddove risultassero sconclusionate o fini a se stesse.

Lo si capisce già dalla sigla, affidata a “Nevermind” di Leonard Cohen, brano contenuto in Popular Problems del 2014. Ad ogni puntata la seconda strofa della canzone cambia, fatta eccezione per la prima e l’ultima puntata che “chiudono il cerchio”, se proprio non riusciamo a fare a meno di essere nostalgici della M-Brane Theory e della circolarità del tempo tanto cara a Rust.
Il testo di Cohen parla di un uomo in cerca di riscatto, che si è buttato alle spalle la sua vecchia vita seppur rimanendo colluso con il marcio del mondo, e a cui, nonostante le sconfitte e nonostante i compromessi, tutto sommato non importa: è una lunga e atarassica marcia per la sopravvivenza, non aspettatevi altro dalla vita. Un indizio che probabilmente non è arrivato al pubblico più bisognoso di scene concitate, monologhi da status su Facebook e di una trama chiara e standard.

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A record of our little lives come dice un verso di Cohen, è il primo comandamento per Pizzolatto, che certamente ha puntato buona parte della sua posta sul far emergere l’aspetto caratteriale dei personaggi, i drammi più intimi e anche miseri della loro esistenza, nonché il modo in cui le scelte e gli eventi della vita abbiano cambiato le cose in maniera incontrovertibile. I poliziotti del quartetto che indaga sull’omicidio di Ben Caspere sono, ciascuno a suo modo, a un punto di non ritorno: compromessi, marchiati, in preda ad un dramma interiore.

Decadenza e fallimento dei personaggi sono supportati costantemente dalle scelte musicali, in particolare dai brani originali composti da Lera Lynn e prodotti da Rosanne Cash e dall’onnipresente Burnett, che rappresentano la vera sorpresa della colonna sonora di questa stagione. Sia le sonorità che i testi lanciano un segnale chiaro su quanto sia primario concentrarsi sul lato emotivo dei protagonisti, prima ancora che sugli svolgimenti della storia: This is my least favorite life / the one where I am out of my mind / the one where you are just out of reach / the one where I stay and you fly. / I'm wandering in the shade / and the rustle of fallen leaves / A bird on the edge of the blade / lost now forever, my love, in a sweet memory.

Il filo conduttore è la bettola deserta dove avvengono gli incontri tra Ray Velcoro (Colin Farrell) e Frank Semyon (Vince Vaughn), dotata di un piccolo palco dove una cantante un po’ tossica dall’aspetto malandato strimpella un folk riverberato e discendente.

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La falsa-trama principale dell’omicidio farà lentamente emergere la corruzione di Vinci, una cittadina immaginaria inquinata e deprimente, situata nel lato sbagliato della California. Gli intrecci di potere tra politica e malaffare sono simbolicamente rappresentati dalle ripetute inquadrature agli immensi snodi autostradali californiani, che raffigurano al tempo stesso gli incontri tra i protagonisti, abbandonati alla loro esistenza tanto quanto inevitabilmente dipendenti l’uno dall’altro. Inquadrature e ambientazioni che sono anche un aperto tributo a Strade Perdute e Mulholland Drive, tant’è che si può dire che Pizzolatto attinga da Lynch non meno di quanto faccia da Cioran e Nietzsche per i monologhi nichilisti ed esistenzialisti della prima serie.

La scena di apertura della terza puntata, con un Conway Twitty immaginario che si esibisce in “The rose”, fa immediatamente pensare a quella scena di Velluto blu in cui viene cantata “In dreams” di Roy Orbison. Ma oltre all’estetica e alle situazioni lynchiane, bisogna anche dire che sono innumerevoli i riferimenti e le citazioni lampanti che si possono riscontrare in tutte e otto le puntate: Quarto potere, Bersaglio di notte, I tre giorni del condor, e moltissimo altro da tutto il mondo del noir e del poliziesco anni ’70. E benché per molti questo eccessivo citazionismo sia stato motivo di critiche, alcune scene sono così esplicitamente identiche da poterci trovare solo uno sfrenato amore per la storia del cinema.

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Vinci è amministrata da un manipolo di politici e poliziotti corrotti, in combutta con malavitosi con i quali gestiscono molti affari. Il sistema è perfettamente rodato e chiuso, che per i protagonisti è impossibile uscirne e per quanto tentino di combatterlo o di conviverci, finiscono in un modo o in un altro col rimanere schiacciati ai margini.
È certamente solo un caso che durante la Seconda Guerra mondiale Max Horkheimer e Theodor Adorno si rifugiarono proprio in California e lì concepirono la Dialettica dell’Illuminismo, un’opera in cui la volontà di potenza delle piccole élite è considerata la principale artefice dell’oppressione dell’individuo, prima ancora del concetto di proprietà privata di derivazione marxista. Ed è certamente ancora un caso che gli stessi autori della Scuola di Francoforte, un decennio prima, pubblicassero Studi sull’autorità e la famiglia, un saggio di chiaro stampo freudiano, nel quale si analizzano l’influenza dell’autorità paterna che un individuo interiorizza e ritrova nell’autorità della società alla quale tende a obbedire. Una piacevole coincidenza se si pensa che con ognuno dei protagonisti viene toccato in maniera differente il tema della paternità e della figura paterna, in modo tanto raffinato e approfondito da poter essere considerato uno dei temi principali di tutta la stagione.

C’è Ray Velcoro con il dramma del figlio di cui non sa (e non vuole sapere) se sia il padre naturale o se si tratta di una gravidanza causata da uno stupro subito dalla moglie, e poi c’è lo stesso padre di Velcoro, con il quale ha un rapporto arido e che gli appare in un sogno premonitore. Ani Bezzerides (Rachel McAdams) deve buona parte dei suoi traumi di natura sessuale al padre, Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) sta per diventare padre, mentre Frank – oltre a parlare in alcune puntate di quanto l’influenza paterna abbia avuto conseguenze sulla sua vita – non riesce ad avere un figlio con sua moglie. A confermare ancora una volta la centralità della musica nel supportare alcune tematiche come questa del rapporto padre-figlio, c’è “Kill!” del duo shoegaze danese The Ravonettes, che dice: I never met my dad in a loving dream/ smiling in the moonless night./ One time I saw my dad fuck a redhead whore/ I never ever thought I would./ Do you feel that it's ok/ to leave a boy to drown/ in this violent swell./ Never gonna see you again.
Inoltre ci sono parecchi rimandi nel finale che non approfondiamo per evitare spoiler.

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La fotografia, i giochi di colori, l’equilibrio e la qualità di alcune inquadrature sono un altro fiore all’occhiello di questa seconda stagione di True Detective, sebbene la regia, affidata a quattro registi diversi, non abbia conferito alla serie una congruenza e una continuità di stile che spesso gioca un ruolo fondamentale per lo spettatore. Ma tornando alla colonna sonora, oltre a Nick Cave che rifà un pezzo dei Gatilin Brothers del 1979, ci sarebbero almeno un’altra decina di pezzi che andrebbero menzionati tra i circa quaranta che si possono ascoltare durante tutte le otto puntate, alcuni dei quali non figurano neppure in True Detective (Music from the HBO series) che invece è composta di soli quattordici brani.

Si alternano quasi simmetricamente pezzi blues come “Can’t find my way home” dei Blind Faith, i titoli di coda di una puntata scorrono sulla ballata acustica desolata di John Paul White con la bellissima “What a way to go”, c’è il proto-punk di “Human beings” dei New York Dolls, e ritroviamo, come nella prima stagione, i Black Angels con “Black grease”.

Ad ogni modo, va sottolineato ancora una volta l’apporto fondamentale della musica di Lera Lynn a tutta l’opera, che in qualche modo sopperisce alla disomogeneità della regia, fornendo un timbro musicale unico e riconoscibile e volutamente ripetitivo e semplice.

In conclusione va chiarito che non si tratta di certo di una serie tv impeccabile che non fa mai storcere il naso, è indubbio che risulti forzata sotto alcuni aspetti, ma è altrettanto vero che nella sua interezza è ingiusto degradarla a semplice fallimento. Il fatto che Pizzolatto abbia ristretto la cerchia di fan con un prodotto spesso ostico e intrigato non può essere solo un dato negativo se, al contrario, spesso si biasima chi strizza l’occhio di continuo al pubblico. L’intrattenimento fine a se stesso e il bisogno spasmodico di un eccitamento da prima serata non sono più una prerogativa neppure per le idee di Stefano Accorsi.

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