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Musica

Colonne sonore bellissime: Cannibal Holocaust

Il regista in un'intervista dichiarò di non essersi reso conto della violenza di Cannibal Holocaust fino a quando non inserì le musiche di Riz Ortolani.

COLONNE SONORE BELLISSIME è la rubrica in cui ci occupiamo di quelle volte che il sound design o la scelta dei brani della soundtrack di un film sono talmente vincenti da diventare uno degli elementi portanti, non a caso sono colonne.

Cannibal Holocaust è un film girato nel 1979 da Ruggero Deodato e uscito nelle sale l'anno successivo, per poi essere ritirato e tornare in commercio soltanto dopo un'operazione di pesante censura, quattro anni più tardi. Si tratta del film più censurato di tutti i tempi, nonché vietato in più di cinquanta Paesi e bisogna dire che Deodato ci mise del suo per farlo passare come uno snuff movie. Nel tentativo di aumentare l'aura di maledizione intorno al suo prodotto ha cercato di far credere al pubblico che la pellicola fosse realmente un documentario girato da quattro reporter poi scomparsi nella giungla, al punto che—genio del male—obbligò gli attori a starsene lontani dai riflettori per un paio d'anni. Anche una volta che il trucco venne smascherato i tribunali continuarono ad indagare su Deodato, certi che le uccisioni di animali e gli omicidi ripresi nel film fossero stati effettivamente commessi. Deodato dimostrò che nessun essere umano perse la vita, ma non poté negare l'uccisione degli animali e provocò lo sdegno e le comprensibili proteste degli animalisti.

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Ciò che nobilita Cannibal Holocaust e gli conferisce dignità cinematografica e artistica è il messaggio profondo del film, che lo stesso Deodato in più interviste ha evitato di definire horror, poiché si limita a trattare "di cose vere". La sua è una forte critica indirizzata al "mondo civilizzato" e lo si capisce che già dalla prima scena, in cui un giornalista parla di cannibali e la telecamera inquadra la vita metropolitana di New York. Deodato si scaglia innanzitutto contro i crimini e le stragi compiute dall'uomo moderno, ben peggiori del cannibalismo e dei rituali tribali, fino a piantare nella mente dello spettatore il seme del dubbio e farlo interrogare sui comportamenti dell'uomo occidentale nel mondo contemporaneo. Il regista si spinge fino al limite e chiama in causa lo spettatore stesso, fruitore ultimo e soddisfatto di tutte le nefandezze di questo mondo, sintetizzate in poco più di un'ora e mezza di pellicola.

Nonostante tutto Deodato si stupì delle feroci critiche ricevute dal film al momento dell'uscita, in un'intervista disse persino di non essersi reso conto della violenza nella pellicola fino a quando non inserì le musiche di Riz Ortolani. Deodato spiegò che Cannibal Holocaust è la sua risposta indignata al torpore che vedeva avvolgere il mondo verso la fine degli anni Settanta. La guerra in Vietnam e le dittature africane facevano da sfondo lontano agli Anni di Piombo in Italia e Deodato affermò che suo figlio aveva smesso di guardare la televisione, tanto era scioccato dal livello di violenza dei reportage che passavano al telegiornale. Il problema, secondo il regista, non riguardava la violenza del film, ma l'incapacità degli spettatori di prestare attenzione alla vicenda sullo schermo e inquadrarla con la giusta chiave di lettura storica. Sembra che Deodato, con il suo prodotto, non volesse solo scagliarsi contro lo stato in cui versava il mondo dal dopoguerra, ma anche puntare il dito verso quegli episodi storici che hanno insanguinato intere regioni e sterminato innumerevoli culture. Il quadro della società occidentale moderna che emerge in Cannibal Holocaust non è altro che una colonizzazione delle Americhe bis, fondata in primo luogo sul terrorismo psicologico del "pensiero unico" e solo in misura minore sulla sottomissione fisica vera e propria.

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La pellicola si apre con un disclaimer in cui i distributori giustificano la loro decisione di dare alle stampe un film del genere e di presentarlo senza tagli, che rischierebbero di menomarne il significato, e citano come giustificazione della scelta una frase di George Santayana: "Coloro che non riescono a ricordare il passato sono destinati a ripeterlo".

La prima scena del film ha luogo nel vivo della foresta amazzonica: da un aliante in volo lo spettatore plana sulla maestosità della giungla vergine, e la musica con cui Ortolani ci invita alla visione della pellicola ricorda le colonne sonore composte per i film italiani degli anni Sessanta e Settanta di genere esotika (Bora-Bora, Amore libero, Il corpo). Si trattava di pellicole ambientate in luoghi ai confini del mondo, in giungle sperdute o atolli boreali in cui il progresso non era ancora arrivato. Pellicole imbevute di filosofia ecologista spiccia e fondate sul mito del bon sauvage, avevano lo scopo dichiarato di esaltare la semplicità e il carattere trasognante della vita in quei luoghi. Tuttavia spesso questa dichiarazione d'intenti si riduceva a un pretesto per poter mostrare allo spettatore più pruriginoso giovani ragazze disinibite intente a danzare nude nell'oceano o impegnate in rapporti sessuali con il protagonista bianco di turno sul bagnasciuga. Il risultato il più delle volte si poneva a metà tra una rivisitazione contemporanea e ingenua del mito dell'Età dell'Oro e una sorta di film quasi documentaristico su tali territori ancora vergini. Sebbene talvolta i registi non disdegnassero l'approfondimento di riti magici e narrazioni folkloristiche, la maggior parte di queste pellicole si riducevano ad un esercizio di stile basato sulla dimostrazione di compatibilità o meno della società civilizzata moderna con quella tribale arcaica attraverso una certa componente erotica di tipo softcore, pensata per venire incontro ai gusti di quella fetta di popolazione del mondo occidentale che, durante la rivoluzione sessuale, sognava di lasciare tutto e salire sul primo aereo per gli atolli del Pacifico.

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Riz Ortolani ha preso spunto da queste suggestioni un po' ingenue e ormai al limite del demodé e sforna il tema musicale portante del film: una nenia dolce e sognante supportata da un coro di voci femminili, che cullano lo spettatore in viaggio al di sopra di della Foresta Amazzonica. L'uomo occidentale, conquistatore della natura e forte del permesso del dio biblico che lo rese di fatto "padrone della Terra", su questo aliante in volo a centinaia di metri al di sopra della giungla inesplorata si sente giudice e giuria, solo detentore del giusto modo di vivere. Questo è il tema cardine di Cannibal Holocaust, messo in dubbio se non addirittura in ridicolo scena dopo scena, fino alle più estreme conseguenze.

Fin da una della prime scene in cui la troupe occidentale si imbatte negli autoctoni, Deodato sottolinea l'inconciliabile abisso esistente tra le due culture ed evita di trattare i fatti in modo ingenuo, come spesso avveniva nei film del filone esotico degli anni precedenti. La scena a cui ci riferiamo è quella della punizione dell'adultera (visibile qui sopra). Ortolani, per una scena così agghiacciante, crea un tappeto di freddi synth incalzanti, ci unisce un beep malsano e conclude il tutto con una melodia di archi che trasuda al tempo stesso disperazione e ineluttabilità. Lo spettatore si sente invaso da un sentimento di terrore atavico e di repulsione, viene chiamato in causa in prima persona da Deodato e questa decisione non è casuale o gratuita: il regista vuole fin da subito far prendere posizione allo spettatore, ricordargli il suo modo di pensare e di vedere occidentale, civilizzato, moderno, in antitesi rispetto alle aberranti pratiche tradizionali degli indios.

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La melodia di "Adulteress' Punishment" viene ripresa successivamente, con qualche variazione (dei colpi in sottofondo che velocizzano il pezzo) nella scena in cui la troupe statunitense giunge in un villaggio tribale, che trova distrutto e con le abitazioni ridotte in cenere. Deodato inizia così a guidare la mente dello spettatore su altri canali: non quelli convenzionali su cui lo aveva condotto in prima battuta, ma su altri da cui solitamente ci si tiene a una certa distanza di sicurezza. La distruzione del villaggio è palesemente opera non dei nativi, ma proprio dell'uomo civilizzato che dovrebbe—in teoria—esimersi dal compiere nefandezze di questo tipo. Il connubio creato dalla situazione inaspettata e dalle musiche riprese dalla scena precedente inducono lo spettatore a iniziare a dubitare della sua mentalità unipolare.

La scena successiva rimescola ancora una volta le carte in tavola. L'antropologo statunitense, invitato per un bagno da uno stuolo di giovani native nude, di colpo dimentica le brutture a cui ha assistito e si abbandona alla bellezza della natura vergine e alla compagnia delle autoctone. Per un attimo ci sembra di essere stati catapultati nel mondo paradisiaco del filone esotico che Deodato tanto mira a mettere in ridicolo, ma è solo una fugace impressione. Senza alcun preavviso, le ragazze native escono dal fiume e conducono lo straniero presso una radura, sulla quale gli scheletri di varie persone sono stati accatastati allo scopo di formare un'indicibile totem di morte, al quale le giovani si rivolgono con grida e lamentazioni. Per questa scena, che spinge lo spettatore in men che non si dica da un'atmosfera di spensieratezza ad una del tutto opposta, Ortolani ebbe la geniale intuizione di unire i due pezzi precedenti in un allucinante mix: "Love with fun" infatti inizia come il main theme, per poi degenerare in un'orgia di tappeti synthetici, battiti ritmici sempre più sostenuti e strepitii dissonanti. A questo punto della narrazione, lo spettatore si trova a un bivio: se infatti il precedente omicidio dell'adultera era stato avvertito senza remore come un'aberrazione ingiustificabile, come giudicare l'uccisione di alcuni uomini che, senza troppi problemi, si erano resi colpevoli della distruzione gratuita di un villaggio e del massacro indiscriminato dei suoi abitanti autoctoni?

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Entriamo così nella seconda parte del film, "L'inferno verde", che si basa sulla visione del materiale filmato dalla troupe di freelancer che—come siamo venuti a sapere precedentemente—ha compiuto l'olocausto del villaggio e ha poi trovato la morte. Più i giornalisti della BDC si inoltrano nella visione dei nastri, più le immagini diventano sempre più assurde e ripugnanti, fino a giungere al culmine dell'ingiustificabile. In un filmato, si vedono i membri della troupe che, dopo aver immobilizzato una giovane nativa in cui si erano casualmente imbattuti, la stuprano selvaggiamente, uno dopo l'altro. Nella scena immediatamente successiva, il cadavere della donna si trova orribilmente impalato e i suoi aguzzini, mistificando la realtà, confezionano una versione fasulla dei fatti per far credere allo spettatore di averla trovata in quelle condizioni. "Non possiamo appoggiare queste pratiche barbare, ce ne discostiamo nettamente" dice la voce fuori campo mentre viene filmato l'abominio; nel mentre, il volto di un altro dei reporter si tramuta in un ghigno spietato. Ortolani compie per questa scena la scelta musicale più geniale in assoluto: in nettissima contrapposizione con le immagini agghiaccianti, opta per una melodia sognante e cristallina di archi e accresce ulteriormente l'assurdità della situazione.

È un dato di fatto che la scelta di un certo tipo di musica può deviare i pensieri dello spettatore su binari ben definiti: tecniche simili sono sempre state utilizzate come strumenti di propaganda dal momento in cui la televisione è stata inventata. È proprio propaganda quella che stanno facendo gli aguzzini della troupe, che mistificano i fatti e indossano all'occorrenza la maschera del politicamente corretto, allo scopo di prendere le distanze e tradire l'incontro con una civiltà vista come arretrata e non al passo con i tempi, quindi meritevole di essere distrutta e stuprata dalla "civiltà".

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Da questa scena in poi la clìmax di violenza ascende a livelli quasi insopportabili. Dai filmati emerge che la troupe è caduta vittima dell'imboscata di un'altra tribù di nativi e che è stata fatta brutalmente a pezzi: uno viene decapitato e squartato, la sua collega viene stuprata ripetutamente e poi finita. Persino i membri della troupe che avrebbero la possibilità di fuggire e mettersi in salvo rimangono sul luogo per filmare tutto e scelgono di anteporre fama e ricchezza alla propria stessa sopravvivenza. D'altra parte, per l'occidente dei consumi che valore ha una vita se essa non conduce all'accumulo di beni materiali e denaro? Per questa sequenza allucinante, Ortolani porta all'estremo la melodia di "Adulteress' Punishment" e la fa implodere in un delirio cacofonico di suoni contraddittori che si innestano su un tappeto di tastiere, per poi sfociare nuovamente nella melodia iniziale, che adesso appare quasi come una lamentazione accusatoria nei confronti del mito del progresso. Non vi è tuttavia un'esaltazione del bon sauvage, visto in contrapposizione all'uomo bianco: la riflessione che Deodato cerca di suscitare nella mente dello spettatore si basa piuttosto sull'accettazione dell'ordine naturale delle cose, homo homini lupus, nessuno escluso, selvaggio o civilizzato che sia.

Il film si chiude con una riflessione dell'antropologo volta a riassumere l'intera lezione del regista ("Mi sto chiedendo chi siano, i veri cannibali"). Se infatti, in senso letterale, i cannibali del titolo sono i membri della popolazione tribale che massacra i membri della troupe statunitense, in senso figurato nulla vieta di attribuire tale etichetta anche agli stessi freelancer (colpevoli dell'olocausto nel villaggio) e anche alla società occidentale stessa, che si ritiene assolutamente giustificata a considerare la propria visione del mondo come l'unica valida, l'unica che assicuri all'essere umano di vivere dignitosamente e nel pieno rispetto dei diritti civili, che giustifica la distruzione di sistemi di vita e di pensiero altri, riassunti nella narrazione del film dalle pratiche consuetudinarie delle popolazioni autoctone dell'Inferno Verde.

Proprio per questo, chiunque decida responsabilmente di guardare Cannibal Holocaust non dovrebbe lasciarsi scandalizzare dall'atrocità delle immagini: l'ideale sarebbe che ogni spettatore, sullo scorrere dei titoli di coda, rimanesse scioccato ed esterrefatto, ma soprattutto basito e meditabondo come i dirigenti della BDC nell'ultima scena del film, quando il nastro salta definitivamente e le luci si riaccendono.

Marco non è su Twitter perché non saprebbe che farsene di 140 caratteri, e infatti ha due siti: uno in cui scrive recensioni, e uno in cui parla di religioni e mitologia.