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Musica

L'articolo di Gramellini su "JoVasco" è un onesto esempio di giornalismo

"Maschio femmina" contro "maschio alfa", barrette di kamut contro birra e altre grandi verità.

Immagine tratta da questo articolo.

Non mi capita spesso di leggere articoli musicali che mi lascino bella soddisfatta a fine lettura, quella soddisfazione che provi solo di fronte ad opere oneste, sincere, fuori dai denti, che mettono il lettore di fronte a una scottante verità.

Il mondo del giornalismo musicale italiano è diviso tra chi tenta di dimostrare capacità di appercezione superiori alla media perché dotato di cultura enciclopedica, chi è ben assestato sul sistema di valori che lo mantengono a galla e chi si sente gesù cristo e può permettersi di surclassare l'argomento musica dato che quindici anni fa ha dimostrato di essere parte di una ristrettissima inteligentja di VJ e ora dirige una testata che pubblica articoli destrorsi.

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E poi arriva finalmente un articolo onesto: "JoVAsco, due tribù negli stadi d’Italia", di Massimo Gramellini (ved. fot.)

Buongiorno anche a te, caro Massimo.

Ebbene sì, Gramellini è andato allo stadio per riscontrare che "L’Italia di Lorenzo e quella di Vasco si radunano di notte negli stadi liberati dalla tirannia del pallone per celebrare il rito laico dell’estate." Ma analizziamo punto per punto le illuminazioni da cui il giornalista e fedele di Fazio è stato investito durante il suo weekend selvaggio.

San Siro consacrava lo storico triplete di Jovanotti: mai nessuno, prima del cantore della spensieratezza profonda, aveva osato riempirlo per tre sere di fila e per tre ore di fila correre da una parte all’altra di un palco chilometrico, pur avendo sorpassato da tempo l’età del soprannome.

Partirei dalla poesia nelle parole di Gramellini, che definisce Jovanotti il "cantore della spensieratezza profonda". Cosa avrà voluto affermare con questo ossimoro? Che la spensieratezza può essere profonda? Che c'è bisogno di affondare in un vortice di vacuità per riscontrare la caduta di ogni ideale e della coscienza critica, a partire dal cantautorato (attenzione, il cantore non è il cantautore, è più che altro un aedo, una voce che esprime una coscienza condivisa, e in questo caso la coscienza espressa è quella della "spensieratezza profonda", in altre parole, del nulla) fino ad arrivare al numerosissimo pubblico che per tre sere di fila si è votato alla profondità dell'assenza di pensiero, quasi a un nirvana volontario e compiaciuto per cui parlare e pensare il niente ha una funzione catartica. Sarà proprio questa leggerezza dell'animo che permette al Jova, nonostante non sia più jova, di essere così in forma.

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Torino invece omaggiava il Komandante, che nel corso di una vita spericolata è venuto a suonarvi così tante volte da consentire a un mio amico diversamente giovane di accompagnare ai concerti prima la fidanzata del liceo e poi, nell’ordine, la moglie, l’amante di passaggio, la seconda moglie, la figlia maggiore e l’altra sera la minore, una studentessa di sedici anni che, mentre il padre dimenava la testa deforestata al grido di «Siamo solo noi», abbassava la sua fingendo un interesse spasmodico per la punta delle scarpe.

Dall'altra parte c'è Vasco, l'istituzionalizzazione della vita spericolata, l'ubriacone sotto casa che tutti salutano perché "oramai è di famiglia", attenzione, una famiglia in cui il rapporto padre-figlio è sempre ben saldo nonostante il padre sia addirittura passato da un matrimonio all'altro con breve pit-stop amante, ma che vuoi, è il rock. Non c'è da vergognarsene, figlia, tuo padre è rock.

Nell’Italia di Vasco i ragazzi sono la minoranza. Come in quella reale, del resto. Ma ragazzi si sentono tutti, almeno per una sera. A cominciare dal pazzo più sano che mi sia mai capitato di incontrare, un fan che cantava a squarciagola tutte le parole di tutte le canzoni, comprese quelle dell’ultimo album ignote ai più, ma lo faceva volgendo le spalle al palco e squadrando a uno a uno gli spettatori delle gradinate soprastanti, in un mulinare plastico di braccia e con certi occhi da spiritato.

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Questa è la parte che preferisco. Gramellini qui usa un perculatorio giro di parole per dire che ai concerti c'erano praticamente solo vecchi, ma si sentono ragazzi, almeno per una sera. E, occhio, c'era anche "il pazzo più sano" che Massimo abbia mai incontrato. Spogliato da tutta la retorica, questo paragrafo potrebbe semplicemente essere riassunto in: ai concerti di Vasco e Jovanotti c'erano praticamente solo vecchi e qualche invasato, ma non un invasato pericoloso, un invasato da Vasco, tutto nella norma.

È un’Italia perbene come quella di Lorenzo, ma ovviamente più attratta dal lato oscuro delle emozioni. Qui gira birra, là acqua minerale. E le ragazze non cantano con i maschi ma addosso o addirittura sopra, abbarbicate in gruppi laocoontici da cui spuntano solo i reggiseni.

Adoro che all'utilizzo della parola "perbene" che è esattamente, in mia modesta opinione, l'aggettivo che più si addice a Lorenzo (mi trovo nuovamente d'accordo con Gramellini, assurdo), venga contrapposta LA BIRRA. Ragazzi, la birra. La birra e i reggiseni di ragazze che stanno addosso a ragazzi in pubblico. Ma dove siamo, a woodstock?

La differenza tra le due tribù che ballano comincia nelle viscere degli stadi, dai sancta sanctorum dei camerini. Quello di Lorenzo sembra il reparto di un supermercato biologico. Ogni cosa pulita e illuminata bene. Le merendine al kamut la fanno da padrone. Il momento più trasgressivo è la comparsa di un pesce spada alla griglia con patate lesse. Nei pressi del camerino oscuro di Vasco c’è una nuvola di aria viziata e due tizi in giubbotto che fumano appoggiati a un cartello con la scritta «Vietato fumare».

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E qui il "perbene" si concretizza in un camerino triste, vuoto, non da rockstar ma da cagacazzo bio che mangia barrette di kamut. Ogni cosa è illuminata, la via per il nirvana passa anche dalla pulizia del corpo e il pescespada è il caso-limite di sostanza ammessa in un processo di purificazione. Dall'altra parte, dopo la birra e le ragazze abbarbicate laocoonticamente a corpi e reggiseni, abbiamo addirittura gente che fuma sigarette dove non dovrebbe. Chiaro, uno sarebbe tentato di chiamare la polizia, di chiamare i servizi sociali e di far allontanare per sempre questi pericolosi individui dalla società, ma che vuoi farci, è il rock.

Sul palco le due personalità si esprimono di conseguenza. Lorenzo che saltella come un fauno e Vasco che si aggira come un gattone. Un maschio femmina che cambia costume di scena ogni dieci minuti e un maschio alfa che indossa sempre una maglietta nera, forse la stessa della sera prima. Un fumetto d’uomo che sorride all’estate e al futuro, e un uomo fumato che parla sempre di guai e per il quale il futuro, al massimo, coincide con il risveglio faticoso di domani.

Grazie Gramellini perché dopo aver parlato di "perbene" e di "bio" parli anche del pericoloso fenomeno dell'abito cangiante, che rende Lorenzo un "maschio femmina", contrapposto al "maschio alfa" che nemmeno si cambia. La leggerezza del fauno androgino bio profeta gli permette un atteggiamento ottimista ed "estivo" mentre la pesante vita spericolata segnata da birra e fumo e magliette non cambiate del maschio alfa gli fa vedere come faticoso anche il risveglio. Vasco, prova con una barretta di kamut di prima mattina, vedrai che svolta.

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Entrambi cantano l’amore, ma per il romantico Lorenzo è un concetto mistico, un sentimento platonico, una festa composta principalmente di baci. Mentre per il carnale Vasco è lo stelo del microfono che mima un’erezione, sono le dita delle sue mani accostate sopra la testa a riprodurre la forma dell’organo femminile che di quella testa rimane il pensiero fisso, peraltro condiviso entusiasticamente dalla maggioranza degli spettatori.

E qui si arriva a parlare di Jovanotti praticamente come di Papa Bergoglio, i baci sono ok, il kamut è ok, ma niente di più perché la chiesa della "spensieratezza profonda" non permette altri contatti di mucose. Dall'altro lato abbiamo una persona che ha la figa in testa e per cui l'asta del microfono non è altro che un cazzo duro. Avevam detto maschio alfa.

Lorenzo ha il sorriso luminoso di chi ha oltrepassato il dolore, Vasco la smorfia ironica ed eroica di chi lo ha affrontato e ha perso, ma non per questo ha smesso di combatterlo. Eppure qualcosa li accomuna ed è l’essenziale: l’assenza di snobismi intellettuali e quella volontà di rivolgersi al pubblico e non agli addetti ai lavori che fa scattare immediatamente l’identificazione.

Due persone che hanno sofferto, ma che non fanno della loro sofferenza una bandiera, bravi, perché lamentarsi non serve a molto, bisogna superare gli snobismi intellettuali e mirare dritti all'identificazione, quindi occhio, non troppa sofferenza, per ogni sofferenza un po' di figa qua e un po' di spiritualismo là e il gioco è fatto.

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Vasco è la sua gente, e anche Lorenzo, sia pure in maniera meno netta e totalizzante. Il suo spettacolo è una meraviglia del Duemila, una specie di discoteca del futuro dove le immagini e le facce registrate che appaiono sul megaschermo, da Fiorello a Ornella Muti, dialogano con il Lorenzo danzante sul palco in (poca) carne e (lunghissime) ossa. Quello di Vasco è piuttosto una reliquia del Novecento. Un concerto duro e puro, scandito come un tempo dai lamenti interminabili delle chitarre elettriche e dall’assenza di effetti speciali che non siano i fari e i fumi sparati addosso al pubblico.

Nella discoteca del futuro occhio a drogarsi di cose che non sono barrette di kamut, occhio. Invece i concerti senza Ornella Muti sono decisamente una reliquia del passato.

Lorenzo è una spremuta di pop. Vasco un concentrato di rock. Lorenzo abbozza discorsi, sia pure più stringati del solito, e non dimentica il suo passato di disc jockey. Vasco dice solo «Ciao Torino» all’inizio e «Grazie Torino» alla fine, oltre a un «Bisogna tener duro» che, conoscendo il tipo, forse non è soltanto un’indicazione metaforica.

Praticamente non hanno detto un cazzo.

Ma alla fine quello che li unifica è la loro vittoria sul tempo. Alla soglia dei cinquanta Lorenzo ha ancora le movenze e la tenuta fisica di un ragazzino. E Vasco, che quella soglia l’ha superata da un pezzo e di anni ne ha 63, così in forma non era apparso mai, nemmeno a trenta, quando barcollava sul palco con la pancia di fuori e la voce talvolta gli si rompeva a metà di una canzone, lasciando al pubblico il compito di finire la strofa. Adesso è asciutto nel corpo e nei gesti, e le sue corde vocali sembrano rigenerate. La sincerità paga, sul palco e nella vita. Che si sia fauni o gattoni, l’importante è essere veri.

Bravo Gramellini. Quello che unifica il fauno "maschio femmina" e il gattone "maschio alfa" è che parlano al pubblico, che sono sinceri, sono se stessi e sono il pubblico. E il pubblico italiano che cosa vuole dai suoi idoli se non sentirsi dire vaghe cagate spirituali e "viva la figa"? Nient'altro, Massimo. Siamo un popolo fondato sulla figa e sul Vaticano, basta così.

È con questa sensazione che due tra le migliori tribù di questa Italia confusa e infelice escono da San Siro come da Torino, come da ogni altro stadio solcato dai passi dei loro stregoni. Se non è ancora l’annuncio di una riscossa imminente è comunque il segnale di un popolo che non accetta di arrendersi.

E insomma, siamo tutti confusi e infelici, ma dopo un'immersione nella "spensieratezza profonda" e nel vizietto che non uccide ma fortifica possiamo intonare anche noi il coro da stadio "non mollare mai" (non solo in senso figurato, hehe) e sentirci la coscienza a posto. Questo è giornalismo. Questo è Italia. Ottimo lavoro.

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