FYI.

This story is over 5 years old.

sky online

Sette meta-psicopatici

Inutile farla lunga: un film che si intitola Sette psicopatici—non uno, non tre, sette—te lo comprano subito. Tanto più se ti chiami Martin McDonagh e stai dirigendo una pièce teatrale con Sam Rockwell e Christopher Walken.

Questo post appartiene alla nostra serie sul meglio del catalogo Sky Online.

Inutile farla lunga: un film che si intitola Sette psicopatici—non uno, non tre, sette—te lo comprano subito. Tanto più se ti chiami Martin McDonagh, hai scritto una delle più eccelse dark comedy del decennio (In Bruges), e stai dirigendo una pièce teatrale con Sam Rockwell e Christopher Walken.

Sette psicopatici è uscito a fine 2012 come secondo lungometraggio di Martin McDonagh dopo In Bruges. La prima volta che l'ho visto, al cinema, ho riso e battuto le mani dall'inizio alla fine, ma una volta fuori dalla sala ho detto “Quindi il film era tutto qui?”

Pubblicità

Perché, e qui bisogna avanzare con cautela, Sette psicopatici è un meta-film che fa perno sulla storia di Marty (Colin Farrell), uno sceneggiatore alcolista di Hollywood che sta cercando di scrivere una sceneggiatura intitolata “Sette Psicopatici”. Il suo migliore amico (Sam Rockwell) di professione rapisce cani per ottenere le ricompense messe in palio dai padroni, e mentre Marty cerca di delineare le varie trame del suo soggetto cinematografico, la sua vita si trasforma nella sceneggiatura stessa, fino a che il film—nella sua seconda metà—non diventa un manuale di “Scenari che si verificherebbero nel cinema di genere, ma che qui sono molto più autoconsapevoli.”
Praticamente, Il ladro di orchidee ma con protagonista uno shih tzu con le cispe negli occhi.

Guarda qui che signorina

Dalla visione in sala, per un anno sono stata accompagnata dall'idea che 1) Sette psicopatici, ok, carino, ma da uno che ha scritto In Bruges si poteva avere qualcosa di più. 2) Non credevo che un film con primi piani di cane potesse non piacermi fino a morirne.

Rivedere il film ne facilita la comprensione, perché chi lo guarda sa perfettamente cosa aspettarsi e cosa non aspettarsi dalla trama, ha il tempo di godersi i tortuosi dialoghi sopra al nulla dei personaggi, sa come centellinare ogni storia degli psicopatici: perché, sì, le storie degli psicopatici della sceneggiatura di Marty non sono solo narrate, nel film, ma le vediamo raccontate nel più sobrio e appropriato linguaggio visivo per una “dream sequence”. (Spoiler: uno degli psicopatici è Tom Waits). E da uno come McDonagh, che viene dal teatro e continua a fare teatro, non ci si aspetterebbe una gestione tanto saggia del mezzo cinematografico: senza la smania del novellino, che spiana carrelli come fossimo al supermercato, ma senza neanche troppa morigeratezza.

Pubblicità

Io, di uno che mi gira la sequenza con Tom Waits “serial killer dei serial killer”, mi fido ciecamente. Anche quando la sospensione dell'incredulità si rompe di improvviso quando si passa da “Giovane attore che interpreta Tom Waits a 30 anni” a “Tom Waits che interpreta Tom Waits a 35 anni.”

Martin McDonagh conosce a menadito i meccanismi per suscitare una reazione nei suoi polli (io) e, anche quando si sa che i suoi personaggi sono scritti, riscritti e iperscritti, si piange e si prega per loro.

Christopher Walken ha uno dei ruoli migliori della sua carriera (e si tratta della carriera DI CHRISTOPHER WALKEN), quello di un truffatore pacato e molto innamorato della moglie. A lui è affidato il cardine sentimentale del film, nonché il giudizio morale sulla sceneggiatura.

Citare non è elegante, ma ecco uno dei meta-dialoghi piacevoli del film

Christopher Walken: Marty, ho letto il tuo film. I tuoi personaggi femminili sono tremendi. Nessuna che abbia qualcosa da dire. E tutte che vengono ammazzate a colpi di pistola o accoltellate entro cinque minuti. E quelle che non sono ancora morte probabilmente lo saranno presto.
Colin Farrell: È un mondo difficile per le donne. Credo sia quello che cercavo di dire.
Christopher Walken: Certo, è un mondo difficile per le donne, ma la maggior parte di quelle che conosco io sanno mettere insieme una frase o due.

Sta qui, tutto il bello del film: se non c'è un grande appagamento nella trama in sé (Charlie Kaufman rimane più aggraziato e preciso, nelle sue costruzioni “meta”), e in fondo in fondo si ha la vaga sensazione di un film usato come sfoggio personare, Martin McDonagh trova sempre il modo di subordinare tutto ai suoi personaggi, che vivono di vita propria, totalmente diversi l'uno dall'altro, sempre agevolati da interpretazioni immense.

E anche se ciò che ci interessa è cosa diranno, non cosa faranno, già questo è sufficiente per essere dalla loro parte, chiunque essi siano.