Com'è essere internati in un ospedale psichiatrico

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Com'è essere internati in un ospedale psichiatrico

"C'è qualcosa di profondamente folle nel prendere una serie di persone nel periodo più brutto della loro vita e rinchiuderle tutte insieme in un edificio," dice il dottor Mark Salter, che da vent'anni si occupa di adulti con disturbi psichiatrici in...

Nick Scott

"C'è qualcosa di profondamente folle nel prendere una serie di persone nel periodo più brutto della loro vita e rinchiuderle tutte insieme in un edificio," dice il dottor Mark Salter, che da vent'anni si occupa di adulti con disturbi psichiatrici in tutto l'est di Londra—una delle zone più incasinate della Gran Bretagna a livello etnico, economico e mentale. Gran parte del suo lavoro consiste nello stabilire se un paziente dovrebbe essere trattenuto in ospedale o in cella in applicazione del Mental Health Act del 1983. Quello, in pratica, relativo all'internamento.

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Nel 2014 questa legge è stata applicata cinquantamila volte, un 30 percento più che negli ultimi dieci anni. Una persona su cento sviluppa una malattia mentale durante la propria vita. Ma, indipendentemente dal fatto che stiamo diventando più "pazzi", più incattiviti, più tristi (o forse un po' più bravi a individuare i disturbi psicologici), per molti finire in un ospedale psichiatrico è un'onta indelebile. Benché, a volte, questo sia un punto di svolta che arriva dopo mesi, a volte anni, di afflizioni mentali.

Parte del problema deriva dal fatto che l'internamento viene tuttora male interpretato, sebbene la società, in generale, sia molto più autoconsapevole dei problemi di salute mentale. È un tabù duro a morire, caratterizzato da battutacce sulle "gabbie di matti" e sugli "svitati." Per Mark Salter, invece, è uno strumento indispensabile per curare i problemi mentali. "L'internamento salva delle vite," dice lui. "A Hackney salviamo più o meno tre vite ogni sera." Juno, un ventiquattrenne che soffre di schizofrenia paranoide, ha cominciato ad avere allucinazioni e sentire le voci a soli 14 anni. "Vedevo scarafaggi sul pavimento, e a volte quando stavo per mangiare li vedevo anche nel cibo; a volte vedevo un enorme spaventapasseri nascosto nell'ombra, dietro al mio letto, e di tanto in tanto anche per strada, in mezzo alla gente." A sedici anni è stato mandato in un ospedale psichiatrico, e i preconcetti comuni lo sorprendono sempre. "I film non mostrano mai il vero lato degli ospedali psichiatrici. Fanno vedere gente in camicia di forza, buttata in celle imbottite e lasciata lì a marcire o a morire. La cosa sconvolgente è che molti sono convinti succeda davvero così!"

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In realtà, essere internati e rimanere internati è molto difficile. Secondo la legge britannica, trattenere un soggetto per problemi mentali (perché non è in grado di prendere decisioni o costituisce un rischio per se stesso) è l'ultima spiaggia. Una notte del gennaio 2013 Jo ha chiamato la polizia per fare internare sua figlia. È stata una scelta sofferta, ma necessaria. Nikki, che oggi ha ventotto anni, era uscita di casa con una valigia semivuota. Quando Jo l'ha ritrovata era al bordo dell'autostrada, convinta di voler andare a Londra (da Norfolk, dove viveva, a Londra ci sono circa 160 km). "Nessuno vorrebbe internare le persone che ama, ma in quel momento sembrava l'unica alternativa," dice Jo.

Nikki soffriva da otto anni di un disturbo bipolare che non le era mai stato diagnosticato, e si presentava spesso al pronto soccorso in uno stato di confusione mentale. Veniva trattenuta per brevi periodi come paziente volontaria: poteva andarsene quando voleva, e in mancanza di letti l'ospedale poteva dimetterla per liberare un posto. Non c'era un vero e proprio piano di cura. Nel Regno unito, negli ultimi cinque anni abbiamo perso quasi duemila posti letto psichiatrici, e lo spazio è insufficiente. In alcune parti del Paese, solo ai casi più gravi è garantita la possibilità di restare in cura. Secondo il dottor Salter, "Non sono ancora diventati dei manicomi classici, ma i reparti psichiatrici stanno per diventare una specie di Bedlam. Sono luoghi turbolenti e caotici, ma facciamo del nostro meglio per resistere."

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"L'internamento salva delle vite. A Hackney salviamo più o meno tre vite ogni sera." – Dott. Mark Salter, Hackney

Jo ammette che non pensava che Nikki potesse venire aiutata. "A un certo punto ero arrivata a pensare che la cosa migliore fosse lasciarla suicidare."
Nikki è stata internata nella Sezione 136, la sezione in cui ti porta la polizia per metterti al sicuro quando ti trova in luogo pubblico, come appunto nel mezzo di un'autostrada. Fortunatamente per Nikki, a causa della mancanza di letti nella sua area, è stata portata in un ospedale psichiatrico in una contea vicina. Lì, le hanno diagnosticato il disturbo bipolare, ed essendo internata, ha dovuto prendere dei farmaci.

Nikki ha avuto la fortuna di non dover passare la notte in cella, cosa che succede più spesso di quanto dovrebbe, a causa della carenza di letti d'ospedale. Claire, una delle persone con cui ho parlato per questo pezzo, mi ha descritto il trauma di finire sotto custodia della polizia, e venire denudati per una perquisizione. "Già da prima credevo di essere una persona pessima perché avevo dei problemi mentali. Ma finire in cella mi ha fatto vergognare di me stessa."

Ali Fiddy è a capo del dipartimento legale di Mind. Mi dice che uno dei problemi più diffusi è appunto quello delle persone mentalmente instabili che finiscono in cella. "Finire in cella è già di per sé causa di stress. Non hai commesso un crimine, stai male, e un commissariato di polizia non è un ambiente adeguato."

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Si può rimanere sotto la Sezione 136 per un massimo di 72 ore, dopo le quali si viene dimessi o—come nel caso di Nikki—passati alla Sezione 2, che dà a un team di psicologi 28 giorni di tempo per diagnosticare il tuo disturbo e offrirti delle cure. Jo dice che Nikki è migliorata in fretta, e ha cominciato a voler comunicare più di quanto non avesse fatto nei mesi precedenti; Nikki, però, non la pensa allo stesso modo. Come la maggior parte delle persone con cui ho parlato, ha fatto ricorso contro la sua Sezione.

Il Mental Health Act include delle leggi che proteggono dall'abuso di detenzione. Sotto la Sezione 2 si ha diritto di presentare appello entro 14 giorni, e la seduta in tribunale è composta da un giudice, da uno psichiatra e da un altro funzionario sanitario, oltre che dallo psichiatra di chi ha fatto ricorso, e da una difesa d'ufficio. Nikki ha perso l'appello, ed è rimasta internata in due ospedali. I dottori non sono sorpresi del fatto che ci sia chi resiste all'internamento. Dele Olajide, consulente psichiatra presso l'unità sanitaria di Londra sud e Maudsley, dice: "Se ricoveri un paziente contro la sua volontà, è irragionevole aspettarsi che il paziente cooperi." Il che è verissimo, soprattutto a causa della differenza tra il supporto psicologico all'interno di una piccola comunità e i grandi reparti psichiatrici ospedalieri: nel secondo caso, quando vieni ammesso ci sono alte probabilità che tu non conosca nessuno. "Può essere un luogo spaventoso, se vieni da una comunità e finisci in ospedale con pazienti molto disturbati."

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Il dottor Olajide dice che i 28 giorni stabiliti sotto la Sezione 2 sono un lasso di tempo indispensabile perché il team psichiatrico—che include psichiatra, infermieri e psicoterapeuta—si guadagni la fiducia del paziente e capisca qual è il problema. Se non è possibile alleviare i sintomi in quei 28 giorni, dalla Sezione 2 il paziente può passare sotto la Sezione 3, dove gli specialisti hanno un massimo di sei mesi per trovare una diagnosi e una cura; i sei mesi possono essere prolungati ma, prima, il paziente può fare ricorso, o può farlo il parente più prossimo, e lì c'è una lunga lista di persone da tenere in considerazione, che va dal partner o coabitante fino alla famiglia estesa. Durante questo periodo di valutazione, l'uso dei farmaci è essenziale.

A Laura, 24 anni, è stato diagnosticato un disturbo schizoaffettivo: si tratta di una combinazione di schizofrenia e disturbi dell'umore e, se Laura non prende le medicine, la sua vita diventa molto imprevedibile. L'ospedale in cui era in cura, però, ha impiegato parecchio tempo a diagnosticare il suo disturbo, e quindi a trovare la combinazione per curarla. Nel frattempo, Laura era giunta al punto di volersi uccidere a tutti i costi, tanto che è stata spostata da una corsia comune a un reparto d'isolamento.

Nella maggior parte dei casi l'internamento non è un epilogo, ma una vera e propria svolta. "È la virgola in mezzo a una frase," dice Salter. "E poi?"

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"Anche se cercavano di proteggerci, trovavo sempre un modo di farcela. A un certo punto ho trovato un rasoio e me lo sono conficcato nel collo, sopra la giugulare: mi hanno dovuto suturare esternamente e internamente. Ero a un millimetro dalla giugulare," dice Laura. "Ho ingerito veleni, una volta mi stavo tagliando e ho preso una vena. Era pericoloso, e capisco perché abbiano dovuto spostarmi. Sarei potuta morire." Quando chiedo al dottor Salter quali siano le difficoltà di tutti i giorni in un reparto psichiatrico, dalla sua risposta mi sembra che comportamenti come quello di Laura siano la norma. "Urla, grida, la necessità costante di monitorare i pazienti a rischio, c'è chi si rifiuta di bere o mangiare. Bisogna essere gentili sempre e comunque. Prova a metterti nei miei panni e immagina di dover usare la gentilezza per sfondare una portone blindato. È estenuante."

L'esperienza di Laura in isolamento è stata molto diversa dalla corsia comune. "Ero legata, mi facevano spesso delle iniezioni. Ti tengono immobile e ti infilano una siringa nella gamba, sotto il culo. Tre volte al giorno portavano i sedativi, insieme ai farmaci normali, e dovevi prenderli per forza." Non si è mai abituata a questa routine. Laura ha fatto ricorso quattro volte, perdendo sempre; eppure, oggi dice: "Ho i brividi a pensare a cosa mi sarebbe successo se non fossi stata ricoverata. Molte delle cose che sono successe non erano necessarie, è vero, ma l'esperienza in sé lo è stata; onestamente, non credo che sarei viva altrimenti." Mi racconta dei diari che teneva durante la permanenza in ospedale. Dai diari si capisce chiaramente il momento in cui Laura ha cominciato a sentirsi meglio, perché ha cominciato a scrivere del futuro. Nelle sue condizioni peggiori, spiega, non pianificava nemmeno di minuto in minuto.

"Una persona confusa, che non riesce ad avere un quadro generale del casino in cui si trova, in futuro è grata di aver ceduto un po' di controllo," dice il dottor Salter. Molte delle persone che ho intervistato sostengono che, nonostante tutte le difficoltà, la loro permanenza in ospedale abbia giocato un ruolo cruciale nella loro guarigione.
Quando potevano, cercavano qualcuno con cui condividere l'esperienza. "Gli altri pazienti, fortunatamente, non erano quelli che ti immagini quando pensi a un reparto psichiatrico. Stavano male, ma erano ancora attivi, amichevoli e gentili," spiega Laura. Claire—che, dopo la sua notte in cella, è stata internata in ospedale—dice che i pazienti si divertivano a spettegolare sullo staff. Molte delle persone con cui ho parlato sostenevano di essere state dimesse troppo in fretta, o di non aver ricevuto le cure appropriate una volta fuori dall'ospedale. A chi viene internato sotto la Sezione 3 sono garantite delle cure post-ricovero (Sezione 117): i servizi offerti vanno da una casa in cui vivere a una persona che venga a somministrare i farmaci di giorno in giorno. Ma il dottor Salter ammette che "nel mondo reale, dove non è che ci sia una gran disponibilità economica, non è poi così facile." Secondo il dottor Olajide "vengono fatte pressioni per dimettere i pazienti non appena danno segni di miglioramento." Questo atteggiamento significa che i pazienti, non ancora pronti, fanno avanti e indietro tra le piccole comunità di recupero e i reparti psichiatrici, e il dottor Olajide è convinto che questo continuo viavai intensifichi le tensioni con famiglia e amici.

Nella maggior parte dei casi l'internamento non è un epilogo, ma una vera e propria svolta. "È la virgola in mezzo a una frase. E poi?" dice Salter. Per Nikki, "e poi" è stata un'altra permanenza volontaria in ospedale, farmaci nuovi, ma oggi è incinta, ed è un'attivista per la salute mentale. Laura lavora nel team psichiatrico della sua area e studia psicologia all'università. Lo scopo del ricovero non è di "internare" le persone, è di riportarle nel mondo reale. "Bisogna correre il rischio, a un certo punto" dice il dottor Salter. "Bisogna ricordarsi che lo scopo di quello che facciamo non è rinchiuderli e buttare la chiave."

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