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Un'ultima giornata da libidine

Sono stato alla presentazione dell'autobiogrfia di Jerry Calà, tra ventenni venuti per farsi i selfie a uomini di mezza età nostalgici di un'era che non esiste più. Fortunatamente, aggiungerei.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Tutte le foto di Vincenzo Ligresti.

"Uno spettro si aggira per l'Italia: lo spettro degli anni Ottanta." È così che mi immaginerei l'incipit della prefazione dell'autobiografia di Jerry Calà se l'avesse scritta Karl Marx.

Nella stanza in cui mi trovo, schiacciato contro un muro al terzo piano dello store Mondadori di piazza Duomo, a Milano, è appena finita la presentazione del libro di Calà. Anche se i presenti non sono una moltitudine, l'aria è piuttosto rarefatta e tutti si accalcano verso il tavolo in fondo alla stanza per ottenere sulla loro copia la firma dell'autore—il beniamino dell'ultima Italia narrativamente e idilliacamente rilevante della storia recente.

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Ci sono ventenni col cappellino della Obey che magari non hanno mai visto un suo film ma vogliono assistere dal vivo all'incarnazione del trash italiano che si riverbera in migliaia di meme e gira video rap metanarrativi per J-Ax sulla Rai; oppure uomini con i capelli impomatati chiazzati di grigio che cercano di sniffare ancora una volta un refolo di anni Ottanta a base di racconti su tormentoni scenici, locali di cabaret, donne cotonate e prosperose, vari tipi di sostantivi da associare all'espressione "da bere", e guitti italiani che hanno scalato la gerarchia sociale con la faccia da schiaffi .

Jerry Calà è senza ombra di dubbio uno dei due-tre grandi frontman di quell'immaginario socio-culturale italiano: ha incarnato per anni l'italiano furbo e scanzonato che nonostante sia basso e brutto sta con donne bellissime, e alcuni dei film a cui ha preso parte sono delle pietre miliari della filmografia italiana anni Ottanta. Quel genere di film le cui citazioni si propagano all'infinito quasi svincolate dal loro contesto.

Io appartengo alla generazione di mezzo, quella cresciuta davanti a Mediaset, che ha visto e rivisto film come Sapore di Mare, I Fichissimi, e Fratelli d'Italia anche se erano un patrimonio di una generazione passata, ma è capace anche di cogliere quel gusto postmoderno nel riproporre personaggi iconici come Calà e Umberto Smaila su internet. Quando ho saputo della presentazione del libro, quindi, ho voluto assolutamente partecipare.

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E devo dire che la presentazione ha accontentato tutti gli schieramenti di pubblico: il leitmotiv principale è stato la malinconia, ma con la presenza di Jerry Calà, Umberto Smaila, Mara Venier e Silvia Annichiarico nella stessa stanza (questi ultimi in qualità di amici storici e compagni di avventure di Calà) il quoziente di trash era troppo alto per non sfogarlo in momenti di giubilo e applausi. Come quando la Venier ha rimbrottato un Calà gongolante per "tutte le corna che mi facevi quando stavamo insieme" o quando, incalzato da un fan sulla trentina—che ha definito Colpo Grosso "il primo YouPorn italiano"—Smaila ha annunciato scherzosamente una sua prossima biografia in cui svelerà tutti i retroscena sfiziosi della sua carriera.

Prima dell'inizio dell'evento l'ufficio stampa ci concede qualche minuto con Calà, che mi spiega come questa biografia non sia arrivata per una sorta di momento di riflessione personale, ma da una proposta editoriale: "[Sperling & Kupfer] mi ha beccato ad agosto mentre facevo un marchettone in un centro commerciale, e mi hanno proposto questo libro. Inizialmente ci ho riflettuto, perché scherzosamente con gli amici mi ero sempre vantato di essere l'unico a non averne mai scritto uno. Ma poi ho iniziato a ricordare, e ho deciso di raccontare la mia vita come se fosse un viaggio in Italia. Ogni capitolo è dedicato a una città che è stata importante nella mia vita, e vuole raccontare un periodo fantastico che ormai è sparito. Degli anni Ottanta resta soprattutto l'entusiasmo in chi li ha vissuti: la voglia di fare, provando, facendo anche qualche cazzata, che oggi i giovani non hanno più."

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La presentazione vera e propria invece è "condotta" da Mara Venier, che funge da contraltare ai ricordi di Calà anche se ha poco tempo "perché fra poco inizia una puntata dell'Isola dei Famosi" di cui è ospite fissa.

Ed è proprio Mara ad aprire il ciclo di malinconica "Italia-del-passato-che-ora-non-c'è-più-ma-che-tutti-dovrebbero-rimpiangere", inframmezzata dagli interventi-memoriale di Calà. Il racconto che la Venier fa della carriera di Calogero Calà è esattamente quel genere di storia "pop rurale" che ha segnato l'esistenza di moltissime santità del jet set italiano di un certo tipo: un ragazzo meridionale emigrato al nord con la famiglia, che si imbatte in episodi di discriminazione—"a Milano e Verona si leggevano cartelli come 'Non Si Affitta ai Meridionali"—ma riesce ad avere successo, nonostante l'opposizione di un padre che sognava per lui una laurea in ingegneria, grazie al forte spirito di iniziativa, al suo essere irresistibile canaglia, e alle congiunzioni fortuite—come l'incontro con Umberto Smaila ai tempi del liceo—che gli permettono di approdare nella grande Milano in cui frequenta quel viziopatinato del Derby Club, si forma professionalmente, e screma via tutta la provincia che ha addosso.

Fa tutto parte del filone malinconico di cui parlavo sopra, che con l'arrivo di Umberto Smaila—sfinge e testimone degli anni Ottanta—raggiunge un picco senza ritorno. Che è poi quello che promette il libro. Quando questo breve dialogo generazionale fra sessantenni finisce e parte il giro degli autografi e delle foto, però, i ventenni sono i primi a mettersi in fila.

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Ma come ha potuto prolungarsi fino a oggi questa narrazione di malinconia? E per quale motivo coinvolge, anche se in modo ironico, i giovani italiani?

È chiaro che oltre all'immaginario a cui aveva partecipato e di cui era stato protagonista, Calà abbia ottenuto questa specie di riconoscimento integenerazionale grazie al successo economico e di pubblico dei suoi film. Ma pensandoci bene, una volta tornato a casa e finito di leggere il libro mi sono reso conto che tutto questo è avvenuto anche perché Calà appartiene all'ultima generazione italiana a cui la malinconia estesa e inarrestabile è concessa.

Prendete un qualsiasi esponente del mondo dello spettacolo contemporaneo, sia esso un attore o un musicista: molti di loro hanno un successo di pubblico che può essere equiparabile a quello di Calà negli anni Ottanta, ma siamo tutti consapevoli del fatto che nessuno di questi sarà mai ricordato con la stessa malinconia di Calà quando penseremo agli anni Zero o agli anni Uno. E non semplicemente perché i loro personaggi non sono abbastanza forti mediaticamente, ma perché sono proprio gli anni Zero e gli anni Uno di cui a nessuno fregherà un cazzo fra vent'anni.

Ci sono luoghi del nostro paese che basano quasi un'intera economia turistica sulla nostalgia per gli anni Ottanta, e locali in cui la serata più frequentata è proprio quella in cui ogni settimana Jerry Calà canta "Maracaibo" per i ventenni. Non succederà mai per l'epoca che stiamo vivendo, e non ci sarà mai un 17enne nel 2040 che vorrà farsi un selfie con Guè Pequeno.

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Questo è dovuto proprio al fatto che "gli anni di cui ci si deve ricordare" sono finiti da un sacco di tempo, e nel libro di Calà ce ne sono tutte le stigmate: quell'Italia le cui peculiarità rendevano possibili questo tipo di storie non esiste più. Ci stiamo evolvendo e i decenni che si alternano hanno delle forme iconiche molto più rapide e contingenti, che non lasciano tutti questi ricordi.

Fondamentalmente, a parte i selfie da mandare ai miei amici su Whatsapp per farmi due risate, quello che mi resta di questa giornata è proprio l'impressione (o forse la speranza) che la "retorica della nostalgia" nel nostro paese stia finendo, e che Una Vita di Libidine sia uno dei suoi sepolcri. Finalmente, direi.

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