Identità

Ho una sindrome rarissima che mi impedisce di sorridere

Il sintomo più caratteristico della Sindrome di Moebius, una paralisi facciale, è l'incapacità di sorridere.
Sindrome di Moebius
Foto per gentile concessione dell'autrice.

Eccola qui: la mia faccia. Occhi le cui palpebre non si chiudono completamente. Naso largo. Labbra sempre socchiuse; asimmetrica, immobile anche quando parlo. Denti storti e accavallati. Pelle irregolare, per via dell’acne giovanile. Zigomi alti e scolpiti.

Nel contesto della mia faccia, i miei zigomi sono perfetti. Catturano la luce, sono simmetrici, e si curvano in maniera dolce. Dicono bugie. Li odio e li amo. Dovevano farmi sembrare più normale.

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Sono nata con una rara condizione di paralisi facciale chiamata Sindrome di Moebius, e il sintomo più caratteristico è che non riesco a sorridere. Questo è l’elemento della mia condizione che impressiona di più le persone: “Oddio, non puoi sorridere? Davvero?” Non è tanto il non-sorridere che sconvolge la gente, quanto ciò che il sorriso di per sé rappresenta.

Non riescono ad accettare che io non possa farlo.

Per tanti versi, ho avuto un'infanzia normale. Anzi, di più, da bambina mi sentivo normale. Non mi sono nemmeno resa conto di non poter sorridere fino all'età di sette anni, quando un’amica delle elementari mi ha fatto delle domande precise sul mio viso. Prima, la mia sensazione, dentro, di gioia, di sorridere, era così pronunciata che ero assolutamente convinta che tutti potessero vedere l'espressione che immaginavo sul mio viso. Se avessi cambiato la posizione dei miei piedi, se avessi indossato un abito diverso, se avessi deglutito in un certo modo, avuto un pensiero più felice— allora la gente sarebbe stata in grado di vedere il mio sorriso.

Volevo essere vista. Ma la ragazza che immaginavo la gente vedesse abitava un corpo che non era mio. Continuava a crescere una frattura tra la perfezione femminile che desideravo per me stessa e il corpo dentro cui vivevo.

Non esiste una cura, di per sé, per la Sindrome di Moebius. La paralisi facciale bilaterale causata da un danno al sesto e al settimo nervo cranico è permanente. Nasci con questa strana immobilità. Quando diventi consapevole della differenza con cui questa immobilità ti segna il viso, entri in un sogno dal quale non ti svegli mai—l'incertezza surreale di un bambino, l'incubo concreto di un genitore.

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Il chirurgo del sistema sanitario nazionale del Regno Unito (NHS) che abbiamo incontrato io e mia madre voleva trapiantarmi in faccia del muscolo dall'interno coscia, per darmi un leggero abbozzo di sorriso—e lasciandomi cicatrici evidenti proprio in mezzo al viso. Anche all’ingenua età di 12 anni ero dubbiosa, come mia madre. Poco dopo, siamo andate da un chirurgo plastico privato per un secondo parere. Secondo lui, l'operazione che ci avevano proposto era un’ingiustificabile operazione da macellaio. Consigliava un'alternativa che mi avrebbe lasciato senza cicatrici visibili: invece che tentare di impormi chirurgicamente un sorriso sul viso, avrebbe cercato di ricreare i cuscinetti muscolari che mi mancavano sugli zigomi inserendo degli impianti mascellari attraverso incisioni accuratamente nascoste in bocca, dove le gengive superiori incontrano l’interno della guancia.

I miei genitori avevano programmato l'operazione per sei settimane prima della data in cui ci saremmo trasferiti dall'Inghilterra all'America. Anche se nessuno lo diceva ad alta voce, avevo capito che la mia faccia era sulla lista delle cose di cui occuparsi prima della partenza.

Probabilmente lo fecero anche per via della mia età—una tredicenne allampanata e timida. Non sarebbe stato più semplice diventare una donna se la mia faccia fosse stata sistemata?

Potrei parlarvi del giorno dell’operazione, dell'ospedale privato, del chirurgo gentile e delle infermiere vestite di bianco immacolato. Potrei raccontarvi i dettagli di quello che è successo, che mi è rimasto impresso più del normale. Potrei dirvi che mi ha fatto male, poi no, poi di nuovo male. Potrei dirvi che ero pronta. Potrei parlare di resilienza, di forza, di migliorarsi. Potrei ridurre tutto a un sussurro.

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Ma la verità fondamentale è che ero una bambina che ha fatto un grosso errore senza rendersi conto che quell’errore spettava a me. Nella memoria, quelle prime settimane di recupero si intrecciano con i preparativi per lasciare l'Inghilterra, quando le giornate passate a svuotare casa e impacchettare sono state una bella distrazione dal nuovo volto che a malincuore avrei conosciuto. Aiutavo mia madre a piegare i vestiti e a metterli nelle scatole, decidendo cosa tenere, cosa dare via. Mi prendevo delle pause sull'amaca nel giardino sul retro, mettendomi un impacco di ghiaccio sulla metà superiore della faccia, ascoltando il canto degli uccelli e il rumore dei camion.

L'America è stata un trauma. Per molto tempo ho parlato il meno possibile e ho cercato di starmene in solitudine ogni volta che potevo. Durante l’adolescenza, mi sono avvolta di una specie di paralisi emotiva, come se la barriera del mio volto operato, ma comunque paralizzato, avesse preso il sopravvento sulla persona che lasciavo vedere al mondo.

In altre parole, non permettevo alle persone di entrare. Non potevo. Se avessi lasciato entrare qualcuno, non mi sarebbe rimasto nessuno posto in cui nascondermi. Ripensando alla ragazza allettata, dopo l’operazione, che si rivolge a sua madre per del vago conforto, riconosco un momento decisivo. Senza dirlo, mia madre mi aveva fatto sapere come avrebbe fatto male diventare una donna, quanto poco avrebbe potuto fare per impedire il dolore. Questi sono i compromessi con cui le donne sopravvivono. La loro tenerezza dopo la violenza. La loro capacità di comprendere il contatto.

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Ci sarebbero voluti anni per smontare la bruttezza che sentivo. Non tutto dipendeva dalla mia faccia, ma molto ruotava intorno alla tirannia dell'immagine. Essere vista o non vista è diventata la mia ossessione. Ho seppellito tutte le emozioni legate a questa dicotomia di visibilità e invisibilità. I sentimenti accumulati uno sopra l’altro, anno dopo anno, fino a quando la mia fredda facciata non ha dovuto rompersi.

Una rottura del genere non è mai ordinata, ma lascia uscire le tossine e entrare la luce. Un paio di anni fa, sono entrata in un grande magazzino sperando di comprare un paio di pantaloncini. La pallida luce fluorescente rivaleggiava con il pomeriggio assolato, fuori. Girando un angolo, mi sono trovata di fronte a un gruppo di manichini completamente nudi, con i loro seni di plastica bianca e le natiche perfette come qualsiasi Barbie. Non avevano né teste né piedi, e la loro nudità, tra così tante pile e scaffali di colorati abiti nuovi, mi sembrava ironica. Erano corpi separati da un’identità.

Quando avevo 16 anni, mi vestivo con grande attenzione. Condividevo la camera da letto con mia sorella di nove anni, quindi a volte mi guardava vestirmi dal suo letto dall'altra parte della stanza. Era estate. Odiavo le superiori ed ero felice di essere in vacanza, di nuotare e fare escursioni con la mia famiglia, molto unita, senza pensieri. Oggi, avevo scelto una gonna corta di jeans e una canotta gialla ricamata con fiori bianchi, anche le spalline, cucite di bianco. Sotto, sperando di sembrare audace, indossavo un reggiseno nero. C'era solo uno specchio, stretto, nella nostra camera, appeso a livello degli occhi, e stavo studiando la metà superiore del riflesso del mio corpo quando mia sorella si è sporta in avanti sui gomiti. Aveva catturato la mia attenzione la sua espressione pensosa, tipicamente dolce.

“Stai bene,” aveva detto, “Dal collo in giù.” In un lampo, i manichini nudi e senza testa sul loro piedistallo mi hanno ricordato di questa conversazione. Nei 15 anni che sono passati da allora, avevo perdonato da tempo il commento di mia sorella, il passo falso di una bambina che ancora non sapeva di non poter dire cose del genere.

Avevo frequentato il college, mi ero trasferita a New York City, avevo avuto un esaurimento nervoso, ero tornata a casa, avevo trovato un terapeuta, un lavoro e un gatto. Eppure, eccomi di nuovo lì, a 16 anni, decapitata da un semplice commento, o a 18, a chiedermi se i compagni di classe si sarebbero fatti domande sul quadrato vuoto di fronte al mio nome sull'annuario, o a tredici anni, con le vertigini, mentre vado sotto i ferri.

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