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Musica

Le origini concrete dei DJ

Se pensate che i DJ non suonino per davvero, dovreste sapere che il turntablism nasce dalla musica concreta e sperimentale.

In genere quando si parla di DJ il pubblico tende a dividersi: da una parte gli entusiasti e dall'altra gli scettici per cui chi associa il verbo “suonare” con la pratica di mixare roba già suonata da altri sta praticamente bestemmiando. La questione, poi, è complicata dal fatto che il DJ, costitutivamente, si pone come figura ambigua, situata al punto di intersezione tra tecnologia, musica, costume, economia e industria dell'intrattenimento. Di sicuro quello del djing è un mondo molto permeabile dai cialtroni, nel quale è possibile sfruttare la propria immagine e le meraviglie della tecnologia per garantirsi palchi importanti—vedi il fenomeno dei DJ vip che sollevano cachet milionari per far finta di girare le manopole. Certo, ogni volta che si entra in territori liminali si rischia di incappare in merdoni e in meccanismi tutt'altro che meritocratici, ma questa è la vita, e comunque non è un motivo valido per negare a chiunque stia dietro a una consolle un potenziale artistico. Sarebbe come dire che siccome esiste Gasparri allora si dovrebbe chiudere Twitter. Tuttavia per contenstualizzare il discorso è bene fare un passo indietro e andare a scavare nelle origini del djing: come è nata questa pratica, per quali scopi e che impatto ha avuto sulla produzione musicale. L'espressione “dj culture” ha cominciato ad emergere con forza negli anni Novanta, per indicare una serie di repertori musicali (Hip hop, Techno, House, Drum'n'Bass) per i quali il DJ era una figura di riferimento in termini di diffusione, e spesso anche di produzione. Minimo comune denominatore di questi generi era il fatto di venire fruiti solo ed esclusivamente attraverso la presenza di un dj che selezionava la musica manipolando dischi. Infatti la “dj culture” si basava sull'abilità di combinare in maniera personale diversi brani, il materiale grezzo di partenza, decontestualizzandoli e ricontestualizzandoli.

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Questo modo di operare rendeva il djing un'attività intrinsecamente post-moderna, in quanto basata sulla citazione, sul cut-up, sul riutilizzo dei materiali e sulla riedificazione di un'unità sonora partendo da frammenti. Ovviamente queste analisi sono state elaborate a posteriori in tempi piuttosto recenti, e di fatto nessuno si è avvicinato a un mixer con lo scopo di omaggiare Gilles Deleuze e le teorie sulla riteritorrializzazione dei materiali espressivi. Resta il fatto che lo strumento principe della DJ culture, il giradischi, è stato al centro di diverse rivoluzioni che hanno attraversato il mondo delle avanguardie musicali, e questo perché i primi ad interessarsi al giradischi in quanto strumento musicale sono stati i compositori e gli artisti delle avanguardie. Il motivo di questo interessse è legato alla facilità di manipolazione, che ha segnato un primo significativo passo verso l'abbattimento delle barriere tra macchine musicali ed esseri umani, scrittura e voce, suono e rumore.

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Nel 1923 László Moholy-Nagy (pittore, scultore e fotografo vicino al Dadismo e al Bauhaus) scrive New Form in Music: Potentialities of the Phonograph, nel quale indica il giradischi come strumento adatto per esplorare nuove sonorità e fare esibire anche chi non abbia ricevuto una formazione specifica. Il buon László ci aveva visto lungo, ma morirà nel 1946 senza poter vedere avverati i suoi desideri. Nel frattempo, però, anche altri si muovevano su territori analoghi. Negli anni Trenta i tedeschi Ernst Toch e Paul Hindemith diedero vita alla Grammophonmusik: musica da eseguirsi con il giradischi, grazie alla manipolazione di dischi incisi appositamente. L'entusiasmo dei due compositori verso il giradischi come strumento creativo era legato alla possibilità di realizzare effetti sonori mai uditi in precedenza sfruttando due princìpi: modificare la voce umana alterando la velocità di riproduzione e sovraincidere più suoni provenienti da fonti diverse. Effetti del genere oggi li farebbe anche un criceto con una qualsiasi app, ma all'epoca ebbero un discreto successo. Pochi anni dopo John Cage componeva Imaginary Landscape n.1, brano nel quale per la prima volta, insieme a pianoforte e percussioni, venivano usati due giradischi, principalemente cambiando la velocità e modulando l'altezza, come in un rudimentale Theremin.

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(video fanmade di un tipo strano che cammina)

La svolta avverrà nei tardi anni Quaranta con la nascita della musica concreta, interamente basata sulla manipolazione di suoni registrati.

Pierre Schaeffer

e i suoi avevano deciso di abbandonare completamente gli strumenti acustici per utilizzare solo registrazioni di suoni estrapolati della vita quotidiana da sovrapporre, scratchare, rallentare, velocizzare ed effettare. Non a caso alcuni DJ, quelli alfabetizzati, citano la musica concreta come modello di riferimento. E in effetti Schaeffer è stato il primo a mettere su carta, sistematizzandole, le tecniche da utilizzare per comporre partendo da dischi.

C'è da precisare che, in senso stretto, la manipolazione di giradischi e mixer non riguarda tutti i DJ, ma in particolare una categoria: i turntablist. Per semplicità si potrebbe dire che la differenza tra un DJ e un turntablist è che, mentre il primo si occupa di tenere un continuum musicale passando da un brano all'altro nel corso di un set (cosa comunque non scontata), il secondo costruisce nuovi agglomerati musicali partendo da frammenti, privilegiando l'aspetto della composizione e del virtusismo tecnico. Ad ogni modo, entrambi traggono origini da quanto avvenuto nella prima metà del Novecento.

Caleb Kelly in Cracked Media: the Sound of Malfunction spiega molto chiaramente come la ricerca di suoni estremi e impuri tramite l'uso improprio, il détournement, delle tecnologie musicali abbia contribuito alla nascita dell'idea moderna di sound, inteso come un valore da costruire volta per volta, brano per brano, alla ricerca di un'identità propria di ogni musicista. In precedenza, nella maggior parte dei generi musicali, l'unicità del suono era vista come un elemento residuale e non necessario per l'esperienza musicale, che si basava sui tre parametri classici: melodia, armonia e ritmo. L'aggiunta di un quarto elemento, il timbro, è un lascito che viene dalla musica colta e di ricerca di molti decenni fa, dai pionieri dell'elettroacustica e quindi dai primi esperimenti, prima col giradischi e poi coi synth. Oggi sono numerosi i casi di contaminazione tra generi e le collaborazioni tra DJ e strumentisti tradizionali di ogni estrazione. La lista sarebbe molto lunga e in questo caso ci limiteremo a vedere quelle tra DJ e compositori e/o orchestre, per vedere se il cerchio si chiude o meno. Un caso molto interessante è il Concert for Tunrtables and Orchestra composto da Gabriel Prokofiev con ai piatti Dj Switch. Il gioco è tutto basato sul botta e risposta tra solista e orchestra (come nella forma concerto della musica classica), evidentemente l'idea è piaciuta, tanto che il progetto è ancora attivo.

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Un'altra collaborazione interessante in questo senso è quella tra Luc Ferrari, allievo di Schaeffer, e il dj giapponese Otomo Yoshihide che invece hanno puntato tutto sull'improvvisazione e sulla manomissione del giradischi—pratica che ricorda da vicino la musica concreta. Ovviamente queste interazioni non portano solo buoni risultati, a volte partono in quarta ma incappano in piccole cadute, come nel caso di Cut Chemist con la Seattle Symphony, poi ci sono casi piuttosto discutibili come le orchestrazioni di Jeff Mills e infine la vera e propria paccottiglia. Insomma, non basta un'orchestra per renderti un eroe della musica. È inoltre interessante notare come siano stati escogitati diversi metodi di notazione per DJ, in modo da poter scrivere le loro parti esattamente come si fa per qualsiasi altro musicista. Alla luce di quanto detto, ha ancora senso parlare di "DJ culture"? Secondo Cristoph Cox e Daniel Warner la DJ culture si compone di cut&mix, cioè della pratica di estrapolare un suono dal suo contesto (ad esempio un sample) per poi reinserirlo in una nuova catena di significato. Questo discorso è particolamente vero per il turntablism d'avanguardia (gente come Christian Marclay o eriKm) e per i generi alla base della dj culture (hip-hop, Drum'n' Bass, house, techno). Tuttavia alcuni di questi settori agonizzano e l'hip hop fa sempre meno uso di campionamenti e manipolazioni, mentre la musica sperimentale ha numeri troppo piccoli per fare statistica.

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Se dunque i generi le cui tecniche costituivano la radice di queste pratiche stanno mutando forma, ha ancora senso parlarne alla stessa maniera? Negli ultimi anni le attrezzature da DJ sono cambiate (vedi l'esplosione del digitale), e di conseguenza sono mutate le tecniche e l'idea stessa di djing. Al di là della polemica sterile sulla questione analogico/digitale, seconda solo a quella Mac vs. Pc, è il caso di capire esattamente cosa comportino questi cambiamenti. Prima di tutto, è scomparso il rumore: il djing ha sempre avuto un legame forte con l'aspetto bruitistico, con il negativo del suono. Del resto, se il giradischi è entrato nel novero degli strumenti musicali è proprio perchè si potevano ottenere suoni inediti, che spesso erano riproduzioni alterate e sfigurate di dischi e registrazioni. C'è poi un altro tipo di rumore, quello non voluto, legato agli aspetti meccanici della riproduzione sonora, come il famoso fruscìo del vinile che—è bene specificarlo—non è romantico, dà solo fastidio.

¯\_(ツ)_/¯

Oggi il novantanove percento dei DJ è passato al digitale, utilizza software e controller, e lo ha fatto unicamente per motivi di praticità. Chi vi dice altro mente. Il restante uno percento è formato da quei DJ che insistono sul suono “superiore” del vinile o sull'impossibilità di trovare le loro perle rare in formato digitale, e dai sostenitori del turntablism d'avanguardia. Questo video del duo Vinyl Terror and Horror spiega molto bene perché certe ricerche timbriche sono a tutt'oggi ancorate all'analogico.

L'eredità delle prime avanguardie sembra essere più visibile in esperimenti di questo genere basati sul suono del malfunzionamento degli apparecchi e sull'estetica del rumore, parametri alla base di molti generi musicali, anche di successo. A diverse apparecchiature corrispondono diverse prassi strumentali, sia dal punto di vista della grana sonora che da quello della performatività. Il digitale offre sistemi chiusi, in cui il suono non esce mai all'esterno della catena e non subisce trasduzioni se non quando arriva all'impianto. Si tratta di un suono efficiente, funzionale e moderno, che non soffre di perdita di informazioni e nemmeno spreca energia. L'analogico, al contrario, è fallibile e manipolabile, prevede un certo grado di “sporcizia” sonora che non può essere eliminato, ma che al tempo stesso rappresenta il cavallo di Troia per l'ingresso in musica della casualità e della ricerca sul suono. Ovviamente non ha alcun senso cercare di mettere queste due modalità a confronto, né tentare di stabilire una gerarchia. Forse questo è l'aspetto più interessante del djing, inteso come pratica trasversale: sono DJ gli sperimentatori, i campioni mondiale delle battle, ma lo sono anche quelli che badano a tenere su il party. La radice rimane comune, il “parlare” con suoni di altri, ma le pratiche sono molto diversificate, così come lo sono i contesti e i tipi di pubblico.
Sicuramente la dj culture, quella tradizionale, è morta, mentre i dj, a quanto pare, sopravvivono.

Alessandro di solito insegna e scrive cose più "pesanti" di queste. Non crediamo abbia Twitter, ma puoi litigarci nei commenti qui sotto.