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Musica

Adrian Sherwood: la mia vita in un buco nel pavimento

Abbiamo parlato con leggendario producer inglese per ringraziarlo di avere ristampato i suoi primi progetti, e prepararci al suo set a Terraforma

Adrian Sherwood è una delle prove viventi che in musica più di ogni altra cosa premia la contaminazione, il muoversi diagonalmente coi generi e saperne utilizzare le caratteristiche fondamentali per rivoltarle. Fin da ragazzino ha dimostrato di sapere padroneggiare le opportunità offerte dall’infezione dub, sia lavorando in maniera più o meno ortodossa con dei veri maestri del suono giamaicano, sia dedicandosi a progetti suoi in cui il DNA virale di riverbero e delay si accompagna ad altre de-forme post punk, industriali, psichedeliche per strappare via l’essenza della realtà e remixarla, come gesto critico, come azione magica radicale.

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Il catalogo di On-U Sound, la sua label, riflette questa oscillazione tra innovazione brutalista e uso dei una tradizione condivisa, ed è un dono del cielo il fatto che negli ultimi tempi sia iniziata una certosina campagna di ristampe che finora ha interessato le primissime uscite della label, in edizioni splendide, complete dei geniali artwork fotografici di Kishi Yamamoto.

Tutto il meglio: ai seminali African Head Charge, fondati col percussionista Bonjo Iyabinghi Noah e dediti a un suono spiritualemente potentissimo, alla belligeranza anarchica di New Age Steppers (nati per mano di Ari Up delle Slits, con anche la partecipazione di Mark Stewart), a quello acido di Starship Africa, l’album realizzato coi Creation Rebel secondo un uso allora radicale dello studio, che trasforma lo spazio riverberante in spazio siderale, interiore ed esteriore. Dischi che ancora oggi fanno rimanere a bocca aperta.

Da lì in poi la (oramai quasi quarentennale) carriera del producer londinese lo ha reso uno dei più rispettati al mondo per carica innovativa e capacità di plasmare il suono, grazie al suo lavoro con praticamente chiunque dagli Einstürzende Neubauten a Roots Manuva Lo abbiamo intervistato per parlare delle sue ristampe, ma soprattutto perché non vediamo l’ora di sentirlo suonare a Terraforma, che resta uno dei festival più importanti d’Italia per ricerca, atmosfera e innovazione, a cui Adrian suonera, come membro della line up—come al solito decisamente impressionante—che invaderà il palco di Villa Arconati dall'1 al 3 luglio.

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Noisey: Antìzitutto vorrei parlare delle reissue del catalogo On-u. Vorrei sapere perché hai pensato questo fosse un buon momento per le ristampe e come hai scelto quali dischi.
Adrian Sherwood: Sto lavorando alle ristampe con Warp, e abbiamo un accordo per ristampare tutto il catalogo: compresi dischi rari, dischi inediti, mix alternativi, e ovviamente i dischi ufficiali con gli artwork originali. Ho deciso quali dischi ristampare per primi lavorando con un ragazzo molto bravo di nome Matthew, che mi ha suggerito di fare prima i primi quattro dischi degli African Head Charge e insieme stiamo scegliendo anche quali nuove release fare. Ci sarà un nuovo Sherwood & Pinch e poi altri nuovi dischi. Gestire una label è un lavoro duro e lo avevo un po’ mollato, onestamente. Quando Warp si è proposta di lavorare al vecchio materiale, io ho pensato che non ci sarebbe potuto essere partner migliore. Era una condizione ideale: loro si sarebbero occupati della gestione e non avrei dovuto più occuparmi della manifattura dei dischi, della contabilità… Ho la fortuna di avere qualcuno che se ne occupa al posto mio, che ha anche un ottimo network di distribuzione e promozionale. Non mi sarei sentito abbastanza sicuro di sapere comunicare le release al pubblico, se le avessi fatte da solo. Perché si viene costantemente bombardati dagli annunci di nuove uscite, ed è davvero difficile emergere senza un supporto serio. È come pisciarsi sulla gamba da soli, uno spreco di tempo e soldi. Per cui sono contento di stare lavorando le persone giuste, e ho fatto ora le ristampre perché finalmente mi sentivo sicuro.

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Credo che la cosa più bella di quelle ristampe sia quante nuove persone si sono avvicinate a quei dischi, gente che prima non li aveva ascoltati o non aveva idea di quanto materiale incredibile ci fosse tra le prime release di On-U.
È successo anche in Italia?

Sì, di brutto. Direi specialmente African Head Charge.
Wow, bene!

Ma non sarebbe potuto essere altrimenti: alcuni di quesi dischi a riascoltarli sono davvero incredibili da quanto erano avanti, è allucinante pensare che si tratta di materiale uscito trent’anni fa…
Oh, ti ringrazio!

…Per cui mi chiedevo cosa ne pensi dell’influenza e del lascito del tuo lavoro dei primi anni Ottanta, e se all’epoca avessi idea di quanto stessi cambiando le carte in tavola.
Be’, non ho mai voluto copiare la musica giamaicana. Ovviamente ero un fan dei grandi producer giamaicani come Lee Perry o Tubby, e grandi musicisti come Linval Thompson. Però stavo anche in fissa con roba come i Cramps o i Fall, e ascoltavo anche tanta musica africana e tantissimo funk americano. Per cui ogni progetto conteneva cose diverse, e ti potrei dire cosa avevo in testa nel momento in cui ho realizzato ciascuno di quei dischi. Per Missing Brazilians volevo fare un disco sovraccarico che suonasse come se stesse per esplodere. Fu uno dei primi album in cui usai una drum machine, e volevo espressamente farlo suonare come se la musica stesse sanguinando. Per African Head Charge, be’… Quasi tutti i miei amici giamaicani parlavano continuamente dell’Africa, ma quasi nessuno dei dischi di quell’epoca faceva un uso pesante di percussioni mettere in piedi un progetto di musica africana sperimentale: avevo già lavorato con Bonjo all’album dei Creation Rebel, un disco che volevo effettivamente far suonare come un trip da LSD o una fumata pesante. Qualcosa che ti facesse dire “Ma che cazzo è sta roba?!”

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Be’, direi che ci sei riuscito. Ancora oggi fa quell’effetto, hahah…
Hahahaha sì. Avevo letto in un’intervista che Brian Eno parlava di My Life In The Bush Of Ghosts come di un disco ispirato da “l’idea di un’Africa psichedelica”. Lì per lì mi suonò come una stronzata, un po’ pretenziosa, però poi ci ripensai bene e mi dissi… “Aspetta, invece è davvero un’idea fantastica!” Per cui chiamammo l’album, al posto di My Life In The Bush Of Ghosts, My Life In A Hole In The Ground. Inizialmente non era una vera band ma girava tutto attorno alle percussioni, suonate tutte da Bonjo. Io producevo e suonavo il basso mentre mia moglie Kishi suonò le tastiere, come in molti altri progetti. Lei è giapponese ed è una grandissima tastierista. Credo che questa combinazione sia stata molto potente e abbia dato vita a dei lavori decisamente sperimentali. Li abbiamo fatti quasi trentacinque anni fa, ma credo che suonino ancora abbastanza interessanti.

Direi proprio di sì! Una delle cose più sorprendenti è quanto tu fossi giovane all’epoca e quanto tu sia stato in grado fin da subito di convincere tutti questi musicisti giamaicani a lavorare con te, nonostante fossi sostanzialmente un ragazzino bianco di Londra.
Il fatto è che ho iniziato a lavorare con musicisti giamaicani quando avevo più o meno quattordici o quindici anni, quindi nel ’73 o ‘74. Conoscevo la famiglia Palmer, che gestiva Pama Records, la quale sarebbe poi diventata Jet Star. Vidi il primissimo concerto in Inghilterra di Gregory Isaacs quando avevo più o meno quindici anni, e lì conobbi parecchi musicisti. Nel ’75 ero già socio minoritario di una label raggae, e avevo solo diciassette anni, per cui nel ’78 iniziai la mia prima vera produzione: Dub From Creation dei Creation Rebel, che non erano una vera e propria band ma un gruppo di musicisti che ho assemblato e a cui mimavo i giri di basso con la bocca. Li ingaggiavo e li pagavo quanto volevano essere pagati, per una session gli davo roba che ai tempi era lo stipendio di una settimana. I dischi li registravo così e poi sperimentavo sulle registrazioni alla maniera di Bryon Gysin o William Burroughs. Passavo tantissimo tempo in studio e quello ne fu il risultato. Cercavo di massimizzare i risultati del tempo passato in studio, perché allora costava un botto di soldi, oggi gli studi sono molto più accessibili. Invitavo tutti i musicisti che conoscevo a passare in studio e molti di loro erano davvero contenti, perché magari non avevano mai registrato nulla in vita loro.

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Ma a livello creativo, fu semplice riuscire a stabilire del mutuo rispetto e una collaborazione solida? Penso anche ai dischi che hai fatto con Prince Far I.
Ah, di Prince Far I avevo fatto uscire il primo album quando avevo circa quindici anni. Poi quando ne avevo diciotto ho sentito dire in giro che voleva uccidermi, ma poi quando ci siamo incontrati abbiamo iniziato ad andare piuttosto d’accordo, siamo diventati amici.

Aspetta… Perché voleva ucciderti?!
Perché non era stato pagato per il disco! Ma noi avevamo comprato i diritti da un’altra label, non ne avevamo idea. Comunque, siamo diventati amici e abbiamo fatto un altro disco assieme. Per me fu molto bello perché adoravo la sua musica. Credo che valga per ogni musicista… Tipo adesso sono appena stato a Cuba, e credo che se tu, inglese, francese, americano o italiano, andassi lì e ti capitasse di incontrare dei bravi musicisti e dessi loro l’opportunità di registrare un disco, be’… Ai musicisti piace registrare e gli piace guadagnare con la loro musica, per cui se riesci a stabilirci un buon rapporto, hai delle buone idee e rispetti il loro lavoro, tutti sono contenti. Molto semplice.

Per cui non c’era nessuno che fosse scettico.
No no. Mi conoscevano già tutti. Sapevano che avevo idea di cosa stavo facendo e sapevano che li avrei pagati, haha!

Haha ok.
Poi, magari, una volta uscito il disco si prendevano bene del risultato e non vedevano l’ora di fare altre session. Magari sulle prime potevano pensare che quello che stavano suonando era un po’ strano e li lasciava perplessi, ma poi ascoltavano i dischi e ne erano contenti. Nel frattempo si diventava amici, o comunque si stabiliva una buona collaborazione anche quando non si restava troppo legati a livello personale. Davvero: quello che i musicisti vogliono è suonare, fare contenti gli altri con la loro musica e venire pagati per farlo. Però dipende tutto dalle idee che hai.

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Te lo chiedo perché oggi ad esempio si è tutti molto attenti al problema dell’appropriazione culturale, che è una questione molto complicata. Ma non mi pare fosse il tuo caso, sia perché eri decisamente in contatto con la scena giamaicana, sia perché non hai usato quel suono per fare soldi, ma lo hai accompagnato a un’altra lingua minore, quella punk o post-punk.
Sì, al tempo ero influenzato da molti dischi strani: Captain Beefheart, Fall, o tanti strani dischi rari che arrivavano dall’America. Non ho mai voluto copiare la musica giamaicana perché non ne vedevo proprio il motivo. Mi interessava altro, ed è questo il motivo per cui ho portato membri di PIL, Slits e Pop Group a suonare fianco a fianco con membri di Creation Rebel. Sono stato molto fortunato a capitare in un periodo in cui c’erano tanti musicisti geniali.

Cosa ne pensi del fatto che ora, a livello sia underground che mainstream, ci sia di nuovo così tanto interesse per la musica giamaicana o caraibica in generale?
E così? Sinceramente non me ne ero neanche accorto. Voglio dire: la musica giamaicana è già ovunque, si è guadagnata il suo posto. In tutti i paesi i negozi di dischi hanno una sezione reggae, che comprende dancehall, roots dub, ska… L’impatto che ha avuto è stato monumentale, astronomico. Bob Marley diceva “people who get the message will get the message”. Credo che ora la gente stia semplicemente riscoprendo certi vecchi dischi e rimanendo folgorata da quanto suonassero bene. So bene che strumentazione usasse King Tubby, tutta roba difficile da reperire oggi, ma comunque riascoltate oggi quelle produzioni hanno un suono che per rasenta l’assurdo. Potresti suonare una sua produzione dub del ‘72 accanto a una traccia dubstep di oggi e suonerebbe comunque bene. Onestamente non penso che oggi la musica giamaicana stia attraversando una qualche golden age, tutto il contrario: ci sono moti grandi musicisti storici ancora vivi, ma c’è bisogno di facce nuove, nuovi grandi artisti che vengano da lì, per rinvigorire la scena. Sono sicuro che tra poco emergerà qualche nuova star, ci sono parecchi bravi musicisti ma ancora nessuno che sia riuscito a spiccare, perché da quelle parti l’industria musicale e le arti in generale stanno subendo sabotaggi da parte delle istituzioni. Succede anche a livello globale.

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Per questo la musica di certi paesi e di certe popolazioni è ancora politica. In un certo senso, qualsiasi lingua che appartenga a una minoranza è sempre in qualche modo politica, in una maniera magari molto complessa.
Sono completamente d’accordo. Credo sia per questo che, anche in Inghilterra, l’educazione e la produzione musicale non ottengono più sovvenzioni pubbliche, ma solo private, da parte di corporazioni private che le sfruttano.

Allo stesso tempo, a livello underground c’è un grande interesse per la musica e la produzione culturale dei migranti, della diaspora, dei paesi che stanno fuori dal grande gioco coloniale. La musica di gente che potrebbero avere una rilevanza politica globale e a cui invece è stata tolta.
Quelle persone stanno ritrovando la loro voce, hanno bisogno di poter dire la loro e raccontare la loro storia. È a questo che si punta: hai bisogno di riflettere il mondo in cui sei immerso.

Comunque, è interessante il discorso sul bisogno di nuove stelle musicali giamaicane. Ho conosciuto molti musicisti europei che ultimamente sono stati in Giamaica e mi hanno raccontato che lì il panorama musicale è in generale abbastanza conservatore, che l’idea di poter sperimentare con il dub e il raggae è quasi un costrutto occidentale.
Sì, ma alla fine secondo me non ha neanche troppa importanza. In fin dei conti, una bella canzone è una bella canzone: Bob Marley scriveva bellissime canzoni, Bob Andy scriveva bellissime canzoni, Gregory Isaacs… Erano tutti grandissimi songwriter. La Giamaica ha bisogno di altri grandi autori di canzoni, sarà quello a cambiare le cose. Poi possono avvenire contaminazioni con elementi più sperimentali, ma non è indispensabile, ci vuole piuttosto qualcuno il cui successo ispiri altri. È difficile sperimentare con un pubblico che a malapena compra dischi… Non ci sono più negozi di musica in Giamaica, e la gente vuole più o meno sempre la stessa cosa: magari per un po’ gli piace Vybz Kartel, poi forse si stufano di testi così semplici e vogliono passare a qualcosa di più conscious. Purtroppo non c’è neanche più molta gente che passi tanto tempo in studio a produrre. Lee Perry passava giorni interi su un solo mix, mentre oggi la tendenza è a fare un disco in un giorno.

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Invece il tuo approccio come funziona? Ho visto qualche video in cui sembra proprio che ti dedichi al mix quasi come se fosse una sessione live, usando una consolle analogica, girando manopole e agendo sul suono in tempo reale.
Be’, ho un mio modo di procedere, uso determinati effetti e un certo tipo di approccio. In realtà pianifico molto attentamente quello che farò, e quando arrivo al mixaggio ho studiato bene le registrazioni e conosco tutti i risvolti, interiori ed esteriori, di un beat. Il mixaggio è il mio momento, il momento dell’ingegnere, il momento in cui mi esprimo e faccio davvero il mio lavoro. L’idea è di concentrarsi sul momento e aggiungere un po’ di magia al mix, secondo l’esempio di Lee Perry. Di solito faccio tre o quattro take e poi scelgo quello che secondo me suona meglio. Per me funziona così, non riesco a fare tutto dentro a un computer. È un approccio vecchio stile, ma per me funziona ed è quello che amo.

Ma vedi il tuo contributo come paragonabile a quello di un musicista in qualche modo?
In qualche modo sì, ma non mi considero un musicista, semmai un direttore d’orchestra, haha. No, magari io sono quello che dà vita al progetto, che getta le basi e che poi lavora per completare il processo. Io sono lì dall’inizio alla fine ma quello che c’è nel mezzo è il lavoro dei musicisti.

Ma di solito quanto controllo eserciti sul loro lavoro? Intendo sia nei casi di cui mi hai parlato prima, in cui i progetti erano sostanzialmente roba tua, sia quando lavori come producer esterno.
Sinceramente direi che dipende dal progetto, ho avuto ruoli molto diversi in casi diversi. In alcuni sono io a mantenere il controllo dall’inizio alla fine, mentre in altri no. Ad esempio, in Tackhead con Keith LeBlanc, Skip McDonald e Doug Wimbish eravamo in quattro a lavorare come una vera band, mentre altrove posso lavorare con cantanti che mi chiedono di mettere mano alle loro canzoni, mentre in altri casi posso essere solo la ciliegina sulla torta. Nei progetti di cui abbiamo parlato prima, quelli più strani come Missing Brazilians etc. ho composto e assemblato quasi tutto io, mentre nel caso dei New Age Steppers fornivo dei suggerimenti ad Ari e agli altri musicisti, assicurandomi che avessero il suono giusto per poi mixare il tutto.

Nel caso di Starship Africa, mi chiedevo se una innovazione così radicale abbia incontrato delle resistenze da parte del pubblico reggae tradizionale.
Quello è stato il secondo disco che abbia prodotto in vita mia. Avevo vent’anni, ero amico di Tony Henry, che avevo conosciuto tramite suo cugino Junior Williams ed era un grandissimo bassista, ma non aveva mai messo piede in uno studio in vita sua. Aveva un anno più di me e aveva fatto parte dei Misty In Roots, ma non aveva mai registrato nulla. Gli facevo suonare dei giri di basso che mimavo con la voce, tipo questa [inizia a canticchiare una melodia] che in realtà è basata più o meno su un pezzo dei 10cc, e lui lo suonava. Ho registrato quelle parti, poi, circa un anno dopo, ho conosciuto il batterista Style Scott, e con lui ho registrato delle parti di batteria, mixandole con altre parti di batteria che però erano venute fuori sync. Per cui ho deciso di suonare il nastro al contrario e mixarlo così, con un sacco di riverbero che faceva suonare tutto tipo [fa dei rumori con la bocca]. Fu una roba molto alla Brion Gysin, suonava stranissima e ci piaceva da morire. Passarono altri due anni prima che riuscissimo a farlo uscire, perché alla gente delle label non piaceva: ci dicevano “che cazzo avete fatto al reggae, cos’è sta roba?”.

Ci avrei scommesso. Quindi i dischi dei Creation Rebel che sono usciti prima sono stati registrati dopo di Starship Africa?
Più o meno in contemporanea, tra il 1977 e il 1978, ma sono usciti dopo. La band vera e propria nacque come backing band per Prince Far I perché gli sarebbe costato troppo far venire una intera band dalla Giamaica. Per cui ci siamo proposti io e Tony, aggiungendo Style, che aveva appena lasciato l’esercito Giamaicano, perché ci serviva un batterista della madonna e allora lo abbiamo convinto a trasferirsi a Londra. Con Prince Far-I iniziammo ad avere parecchio successo: i concerti erano tutti sold out e con code chilometriche, e la gente dei gruppi punk, come John Lydon, veniva tutta. Da lì poi andammo in tour con le Slits per venire poi invitati ad aprire per i Clash, il che mi rese parecchio più sicuro di quello che ero in grado di fare. Riguardo Starship Africa, be’, il pubblico reggae non lo amò molto, ma iniziammo ad attrarre molti altri fan da scene e da paesi molto diversi. Andò molto bene a livello di critica, e John Peel lo suonava in continuazione. Col tempo siamo riusciti anche a farlo piacere anche agli appassionati di reggae, a fargli venire voglia di sballarsi ascoltandolo, hehehe. Sono molto orgoglioso di quel disco.

E a buona ragione, direi. A proposito dell’elemento psichedelico del disco, in fondo non è molto diverso da quello che il dub fa comunque. Stavo pensando a una cosa che scrive Steve Goodman nel capitolo sul dub e sulla sound system culture in Sonic Warfare, che se la dominazione sonora è completa, allora la musica soverchia tutti gli altri sensi, e questo elemento totalizzante è anche inclusivo, è qualcosa che unisce. Qualcosa di molto psichedelico ma anche fisico.
Conosco Steve, è un mio amico, ma non ho letto il suo libro. Non sono un intellettuale e non sono molto in grado di analizzare quello che faccio, seguo quello che mi piace e che voglio ascoltare. Ad ogni modo, anche se non fumo più e non prendo più LSD, mi ricorso benissimo come mi sono sentito tutte le volte che l’ho preso. È come attivare una parte della tua coscienza che normalmente non usi, e puoi fare la stessa cosa col suono.

Segui Francesco su Twitter — @FBirsaNON

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