Al centro del suono: intervista a Roberto Laneri

FYI.

This story is over 5 years old.

Musica

Al centro del suono: intervista a Roberto Laneri

Parliamo col compositore romano di Prima Materia, canto armonico, trascendenza, Terry Riley, Charles Mingus, Giacinto Scelsi e dell'America lisergica degli anni Sessanta.

Roberto Laneri è un nome che magari non dirà molto ai più, però tra gli appassionati di certi suoni e di un certo periodo della cultura underground italiana già dicendo Prima Materia si drizzerà qualche orecchio. Anche grazie al fatto che il loro unico disco (fatto soltanto di quattro voci che creano bordoni e risonanze incredibili, ostiche a un primo impatto, ma di rara bellezza a volercisi dedicare un po') è stato ristampato dalla sempre benemerita Die Schachtel, nel 2005 in CD e l'anno scorso anche in LP, ricevendo grande attenzione nei circuiti più attenti da tutto il mondo. Laneri, che di Prima Materia è stato fondatore e che per tutta la vita si è dedicato al canto armonico oltre che a mille altre cose, ha incrociato la sua strada con nomi quali Pandit Pran Nath, La Monte Young, Terry Riley, Peter Gabriel, Charles Mingus, Steve Reich, Alvin Curran, Giacinto Scelsi… Cogliendo l'occasione di un concerto allo Spazio O', lo abbiamo incontrato per passare un pomeriggio a parlare di tutto questo, della sua idea di musica e di tutta la sua carriera.

Pubblicità

Aprite la mente e mettetevi comodi.

Noisey: Come da copione, comincerei dall'inizio: l'infanzia, la tua formazione, l'amore per la musica. Ho letto che sei nato in Veneto, mentre pensavo fossi romano.
Sì, diciamo per caso. Perché i miei erano lì, però a parte parentesi all'estero o cose così, sempre Roma.

Che cosa facevano i tuoi genitori?
Famiglia del tutto non musicale. Anzi, ho avuto molti, molti ostacoli alla musica. Tutto quello che ho fatto ho dovuto veramente sudarmelo.

Se vuoi proprio tornare alle origini, io ho sempre voluto fare musica da quando mi ricordo: quando ero piccolo e mi ammalavo ero molto contento perché sentivo la radio, anche se volevano togliermela perché pensavano che mi facesse male [Ride]. Sentivo la radio a onde corte, e poi mi ricordo un piccolo registratore, il Geloso, con cui giocavo. A undici anni volevo suonare il trombone perché avevo visto il film sulla storia di Glenn Miller e i miei dissero "non se ne parla nemmeno", perché chi suonava il trombone si ammalava ai polmoni… Dopo molte insistenze mi regalarono una fisarmonica, strumento che odiavo veramente—e lo odio abbastanza tutt'ora, sarà per quello. Anche perché cercavo di suonare jazz e con la fisarmonica non è molto facile [Ride]. Finché poi, durante il ginnasio, mi comprai un clarinetto e cominciai a prendere lezioni private.

Sei diplomato in clarinetto, giusto?
Sì, mi sono iscritto al Conservatorio, ho fatto due anni e a un certo punto ho incontrato un professore dell'Università di New York a Buffalo. Era a Roma per un anno sabbatico, stava scrivendo un report sui vari conservatori europei e io lo aiutai, feci un po' da interprete, cose così. Parlavo abbastanza bene l'inglese. L'avevi studiato a scuola?
Sì, avevo avuto un'insegnante veramente molto brava e poi va beh… una fidanzata americana, insomma così si imparano le lingue [Ride]. E a me piaceva molto il jazz, quindi cercavo di capire quello che cantavano.

Pubblicità

Allora chiesi un po' a questo professore come fare se avessi voluto andare a studiare in America, e lui rispose che con le qualifiche che avevo se ne poteva parlare. Allora lo dissi ai miei e la risposta fu: "non se ne parla nemmeno". Nel frattempo studiavo filosofia, e anche quello era visto con sospetto.

Loro che tipo di carriera volevano per te? 
I miei avrebbero voluto una cosa molto normale: la felicità di mia madre sarebbe stata medicina, mentre mio padre lavorava in banca e avrebbe voluto introdurmi, cose così. Io decisi che invece in America ci volevo andare lo stesso, e per trovare i soldi, con i miei amici/colleghi di Conservatorio, misi su un programma praticamente di tutta la musica da camera per clarinetto a casa di un mio amico che aveva una villa molto grande, con un bello Steinway. Chiamavo i miei amici, chiedevo mille lire a ciascuno, e così misi da parte abbastanza soldi per andare.

Non ero ancora diplomato, avevo il quinto anno, andai a questa università che mi piaceva molto perché era uno dei tre posti in America dove si faceva musica contemporanea, che erano essenzialmente Buffalo, Urbana (Illinois) e San Diego. Quindi andai a Buffalo dove feci l'MBA e poi il Master in composizione, poi un'estate tornai a Roma e presi il diploma in clarinetto da privatista al Conservatorio.

Quindi hai anche una formazione classica. Però a Buffalo scoprivi la musica contemporanea.
Sì, perché lì c'era un centro di musica contemporanea ed ebbi una borsa di studio per far parte di questo gruppo che si chiamava Creative Associates. Ogni due mesi mettevamo su un programma e lo portavamo in giro là intorno. E poi andai a San Diego, che era l'altro polo per la contemporanea, tentando di bypassare Urbana, Illinois perché non è un posto molto divertente.

Pubblicità

Un po' fuori dal mondo.
Sì, in mezzo a campi di grano stesi per centinaia di chilometri. A San Diego feci il PhD in composizione, tre anni. In tutto sono stato in America sette anni, ed è stato un periodo… Be', per me molto bello, veramente molto formativo, devo dire la verità. Tra l'altro ebbi modo anche di conoscere Charlie Mingus, feci una specie di corso di composizione con lui, se posso dire, perché era una cosa molto anticonvenzionale.  In che senso?
Ero il suo unico allievo [Ride]. Non era una persona facile.

All'università a Buffalo c'era un lascito di uno di questi miliardari americani che lasciavano soldi ogni anno perché si chiamasse una personalità di rilievo un po' diversa dalle altre. E quell'anno fu il primo in cui potevamo votare anche noi studenti, mi ricordo ci fu un ballottaggio tra Frank Zappa e Mingus. Il risultato era incerto. Io caldeggiai molto Mingus perché dicevo pure che Zappa non aveva bisogno di venire a fare 'sto corso… Venne Mingus e fu la sua rinascita, perché prima di quel periodo viveva come un barbone per strada a New York. Comunque dopo un paio di lezioni si inimicò praticamente tutti, io fui l'unico che rimase. Non posso dire che fu un corso di composizione vero e proprio, perché insomma… Per quaranta minuti non parlava, se gli girava si metteva al pianoforte e ti faceva sentire delle cose. Alla fine ti dava i compiti.

Poi hai anche suonato in un suo disco.
Sì, l'estate dopo. Lui venne in Italia, io stavo suonando in un turno alla Rca, musica da film, non so di chi. E venne qualcuno a dirmi "c'è una telefonata per te". Era Mingus che aveva saputo che ero a Roma, stava registrando e mi dice "se vuoi suonare, vieni". Caricai gli strumenti, presi un taxi, andai in quest'altro studio, e si incise. Con il suo quintetto, Changes. Molto bello: c'era George Adams al sax, c'era Jack Walrath alla tromba…

Pubblicità

Elio Petri aveva chiesto la musica per Todo Modo, solo che ovviamente Mingus non aveva la minima idea delle problematiche che trattava Petri in quel film, cioè la mafia, la corruzione… Fece questa musica che mi sembrava veramente molto bella, però non piacque al regista. E alla fine la musica per il film la fece Morricone.

Quindi hai partecipato anche a sonorizzazioni, colonne sonore?
Qualche cosa, sì. Sonorizzazioni no, colonne sonore poche. Ho fatto per esempio due film di Faliero Rosati, che era un regista molto interessante, allievo di Antonioni.

Hai anche fatto un po' parte di quel giro più o meno free jazz italiano abbastanza incredibile. Hai suonato con Bruno Tommaso, Schiaffini, Mario Schiano, Melis… Ma è stato prima di andare in America?
Sì, successe tra il '64 e il '65, e io andai nel '68 in America. Poi però tornando ci siamo anche rivisti, abbiamo fatto cose. Con Bruno Tommaso studiavamo insieme al Conservatorio, lui studiava contrabbasso. Con Schiaffini e gli altri, sì, ci siamo conosciuti in quegli anni lì… Be' li conoscevo tutti. Anche perché poi mettemmo su con Schiaffini un gruppo che mi sembra si chiamasse Complesso Grosso, in cui io reclutavo strumentisti classici del Conservatorio: a loro si davano le parti scritte e noi facevamo un po' tutte le altre cose. Con Mario Schiano hai suonato dopo il suo Gruppo Romano Free Jazz?
In contemporanea. C'erano parecchi gruppi allora, eravamo un po' sempre gli stessi, quelli che abbiamo nominato prima. Allora era molto facile fare concerti, un po' c'era il Folk Studio che serviva come punto di aggregazione, più qualche teatro romano. Erano molto aperti a queste cose, si andava lì: "vorremmo fare un concerto tra un mese", "benissimo". Era molto diverso [Ride].

Pubblicità

Però appunto il jazz non ti bastava, diciamo. Era un orizzonte troppo limitato, forse?
Diciamo che, dopo, sì: in seguito lo divenne. Allora no, ma dopo mi sono venuti molti dubbi sul free jazz in generale. Io non sapevo suonare il jazz bebop, forse nemmeno adesso… Posso dire che ho sempre teso un po' verso una sintesi mia di cose, ecco, piuttosto che cercare di rifare qualcosa di già fatto. Questo non lo voglio esporre come un merito, è un fatto caratteriale mio.

Certo.
A me piace studiare le tradizioni per poi inglobarle nella mia musica. Lo stesso dicasi della musica indiana o della musica degli aborigeni australiani. Mi piace entrarci fino a che posso, per poi però operare una sintesi il più possibile personale.

A proposito di studio di altre tradizioni, nel tuo periodo americano hai fatto conoscenza con personalità come La Monte Young, Terry Riley…
La Monte Young là l'ho incontrato solo. Ho conosciuto abbastanza bene Terry, sì. Anche Steve Reich. Era il tipo di musica che mi interessava allora.

Roma fondamentalmente fu una delle prime città ad accogliere il minimalismo, no?
Già nel '65. Fabio Sargentini all'Attico portò Steve Reich, Terry Riley e anche Philip Glass. Fu la prima volta che io sentii musica minimale. Poi con Pandit Pran Nath e Marian Zazeela ci fu un festival al teatro Argentina, ci partecipammo anche noi con Prima Materia, ma questo dopo, sarà stato il '70, '72.

Pubblicità

Il mio lavoro Memories of the Rain Forest, quello per me è un disco di minimal music. Anche africana, ma insomma un po' minimal music. È una musica che mi è sempre piaciuta molto. Veramente molto, molto, molto. Ed è un peccato che sia finita un po' così, che quasi non esista più. In America avevo cominciato in un programma di musica contemporanea piuttosto accademico, eseguivamo pezzi tipo Berio, Boulez, queste cose qui. Cose abbastanza rigide.
Sì, sì, assolutamente.

Mentre il minimalismo arrivò un po' a sconvolgere le carte.
Da un punto di vista di pratica e di performance anche lui è molto molto rigido, infatti non si può neanche parlare di improvvisazione, ma al massimo di muoversi un po' dentro ad aree controllate. Però…

Però anche a livello di pubblico, l'ho sempre vista come una musica che aveva un appeal maggiore anche verso i giovani, verso un mondo quasi tangente a quello del rock…
Perché metteva in trance.

Esatto!
Ecco, quella è tuttora una cosa che ricerco.

Parliamo un po' di questo elemento, che mi sembra importante.
Sì, anche a me. Penso che sia uno degli elementi più importanti nella musica. Alla fine dopo tutto questo tempo ho deciso che una funzione della musica, una delle più importanti, sia questa. Il resto sì, insomma, è importante… però questo per me è fondamentale. Ed è un modo di ritornare ad allacciarsi anche a tradizioni altre, diciamo così.

Nel frattempo suonavo anche con musicisti, come diresti tu, "rigidi"—Vinko Globokar per esempio—ma in California le cose erano molto diverse: io ho studiato all'Università della California a San Diego, UCSD, che veniva familiarmente chiamata UCLSD, per ragioni ovvie, e lì veramente c'era un'aria molto diversa. Non era un'aria così accademica… Si lavorava, eh, non è che non si lavorasse, però non nel senso di quell'accademia lì. Era ritenuta una cosa normale: sai fare accademia e la fai, può capitare di farla, però noi lavoriamo su altre cose. E quindi io ho lavorato molto con le persone con cui ho studiato composizione, che forse qui non si conoscono tanto: John Silber, Bob Erickson… Ho conosciuto Pauline Oliveros, che è la più nota, però non andavamo molto d'accordo. Quelle sono state comunque le persone che poi mi hanno formato di più, mi hanno influenzato di più. Per la musica che facevano e per la "libertà" che mi lasciavano. Ti faccio un esempio: a un certo punto avevo scoperto il canto armonico, nel periodo in cui studiavo composizione con Robert Erickson, che era un musicista e un insegnante fantastico. A un certo punto entrai in crisi per quanto riguarda la parte compositiva. Un giorno andai da lui: "guarda" gli dissi "io non so bene che cosa scrivere: sono in grado di scrivere, perché tu mi dici scrivimi un pezzo di musica contemporanea per trombone, clarinetto in mi bemolle e tre clarinetti contrabbassi e io te lo scrivo, però non ho motivazione".

Pubblicità

Mi rispose: "Ma tu che cosa vuoi fare davvero?" - "Mah, ho scoperto questa cosa del canto armonico e vorrei approfondire". E lui mi disse "go to the beach". Vai in spiaggia, ascolta, e poi quando hai trovato qualcosa ci risentiamo. Ecco, era un approccio molto bello. Non fricchettone, un approccio anche molto serio: però ti lasciava respirare, non so come dire.

Riferendoci al simpatico soprannome della scuola che dicevamo, nelle vostre ricerche c'era anche appunto un elemento di sperimentazione attraverso delle sostanze, oppure eravate sempre sobri?
Queste cose adesso non si possono più dire… Se leggi le interviste ai Beatles rimasti, ogni tanto si facevano uno spinello, a sentir loro. E mi sembra un po' riduttivo.

Noisey è una testata molto aperta da questo punto di vista, si può dire tutto.
Io ti posso dire solo questo: sono stato negli Stati Uniti dal '68 al '75… insomma, qualche cosa è successa. [Ride] E credo di dovere molto a queste esperienze. Anche proprio da un punto di vista musicale: ad esempio un'attenzione a processi sonori più sottili. In certi stati di coscienza si capisce veramente di cosa parlano certi trattati indiani antichi sul suono, per esempio. Perché la musica occidentale da certi punti di vista è… Grossolana, rispetto ad altre tradizioni. Per esempio dal punto di vista dell'intonazione. E quindi se si parla di canto armonico, dove si tratta proprio di prendere coscienza di strati sottili di suono, suoni molto sottili, penso che questo mi abbia aiutato, senz'altro.

Pubblicità

C'è anche tutto il discorso delle durate, ad esempio. Tu prima hai parlato di La Monte Young. Piaccia o non piaccia, La Monte Young è stato non so se il primo ma comunque uno dei primi a concepire musica secondo cicli di lunghezza disumana. Non è "il pezzo", o la sinfonia di ventisei minuti, che finisce dopo ventisei minuti, e sembra già lunga. Qui invece…

Eternal music.
Può durare a oltranza. Prendi In C di Terry Riley, lo puoi far durare mezz'ora, o due ore, o due giorni. Mi ricordo una volta abbiamo fatto una performance di un pezzo di Philip Corner a New York, Carnegie Hall, che è durato tre giorni, nel vestibolo. Ci davamo il cambio. Era un pezzo molto simpatico: quattro battute di un concerto di Chopin in cui ognuno suonava delle parti, ma era minimal music a un certo punto. Ecco, queste sono esperienze che mi hanno formato molto, indubbiamente.

C'era una specie di nostra tradizione improvvisativa, era un po' l'idea di avvicinarsi al centro del suono, come se fosse un mandala.

Quindi siamo a San Diego e ci stiamo avvicinando alla nascita di Prima Materia. La scoperta del canto armonico…
Sì, dunque, io avevo sentito un po' di sfuggita il disco dei monaci tibetani dell'antologia di Daniélou. Quella serie in vinile "La musica del mondo": un'opera molto meritoria, veramente.

Avevo sentito quella cosa lì e non avevo la minima idea di come si potesse rifare. E poi… va be', io non so se tu puoi dire questo, o se è il caso di dirlo… Te lo dico, come ho scoperto veramente il canto armonico: è successo che ero tornato a Roma per un paio di mesi, l'estate tra Buffalo e San Diego, e durante proprio un'esperienza di quel tipo ho cominciato a sentire gli armonici. Come mai li avevo sentiti prima.

Pubblicità

Perché tutti i musicisti sanno più o meno cosa sono gli armonici, lo sanno perché a pagina tre del manuale di teoria e solfeggio ti dicono che esistono gli armonici. Però l'esperienza degli armonici manca. E quando dico "cominciai a sentire gli armonici", vuol dire che ho cominciato a sentire gli armonici veramente in tutto. Mi ricordo che ero su un terrazzo a Roma d'estate, tipico. E c'era questo vento tra le foglie… E io sentivo l'ottava, la quinta, la quarta, la terza… Ho cominciato così: ero con un mio amico e abbiamo cominciato a fare un po' di humming, piano piano. E la cosa è andata avanti per nove ore.

[Risate]

Alla faccia!
E sentivo molto bene quello che facevo. Questo ci tengo a dirlo: non si trattava affatto di allucinazioni sonore, io non cerco l'esperienza allucinatoria. Sono tutte cose che esistono già, esistono sempre, solo che la nostra percezione è ristretta, non è totale. Certo.
Dopodiché, un paio di giorni più tardi, sono ripartito per San Diego. Vado al dipartimento di musica e chiacchierando, facendo conoscenza, arriva una cantante che lavorava con questo Project for Music Experiment, poi diventato Center for Music Experiment. "Chi sei da dove vieni cosa fai?", "By the way, noi stiamo pensando di costituire un gruppo per lo studio di vocalità diverse: canto mongolo, Tuva, queste cose qui. Ti può interessare?" "Sì che mi può interessare!"

Quelle coincidenze… apparenti coincidenze, però molto significative.

Pubblicità

E ho cominciato a far parte di questo gruppo che si chiamava Extended Vocal Techniques, era un gruppo di studio essenzialmente: loro avevano l'idea di farne un gruppo di musica contemporanea, nel senso di approntare una specie di lessico affinché i compositori contemporanei potessero servirsene per la loro scrittura. Che era una cosa che a me assolutamente non interessava. La conseguenza che ha avuto su di me è stata proprio un grande distacco dalla scrittura musicale. Che poi ho recuperato, intendiamoci. Però feci questa tesi per il Phd che non posso dire fosse contro la musica scritta, però era un po' per una rifondazione della scrittura musicale. Temi un po' complicati.

Be', interessante.
Sì, molto. E quindi a un certo punto lasciai andare la tradizione della musica contemporanea colta, l'ho fatta un po' quando sono tornato in Italia, ma poi ho detto basta, anche perché poi ha cominciato a mancarmi la tecnica.

Quello di EVT mi sembrava sempre più un approccio sterile, perché era come voler ridurre degli eventi sonori e di stati di coscienza molto forti a "adesso scrivo un pezzo, e ti metto cinque contro tre, faccio queste cose qua". E quindi mi venne l'idea di lavorare con un gruppo diverso, e fu l'idea di Prima Materia, essenzialmente—con alcuni che erano lì negli Stati Uniti. All'inizio c'era John Mizelle che è un compositore che poi ha insegnato proprio in Illinois, non ci vediamo da allora; c'era Susan Hendricks, che era la mia compagna, e con la quale ci trasferimmo a Roma…

Pubblicità

A un certo punto poi successe che a San Diego reincontrai Walter Bachauer [noto anche come Clara Mondshine, NdR], che era il direttore del festival Metamusik di Berlino, che penso si possa dire è stato il più grande festival di quei tempi, meraviglioso, in cui avevo già suonato. Mi chiese "cosa fai?", gli dissi "guarda ho questo gruppo che ti può interessare". Facemmo una specie di piccola prova aperta, lui venne e mi chiese se volevamo partecipare al festival.

Quanti eravate in Prima Materia?
Eravamo io, Susan, John, nei primi tempi ci fu anche Alvin Curran…

All'inizio c'erano queste persone che poi trovai a Roma come Gianni Nebbiosi, Claudio Ricciardi, e poi Manuela Borri che era la moglie del compositore Paolo Renosto e anche maestra di yoga, e noi le chiedemmo di darci una mano proprio da quel punto di vista, di centrarci… Ci fu anche Michiko Hirayama.

La cantante dei Canti del Capricorno di Scelsi.
Con la quale però si rivelò impossibile continuare, anche per ragioni personali. Poi lo stesso successe con Alvin. E quindi rimanemmo io, Susanne, Gianni, Claudio e Manuela. Poi verso la fine di Prima Materia—noi esistemmo per sette anni circa—mi sembra l'ultimo anno, l'ultimo anno e mezzo, ci fu anche Maria Monti.

Che poi aveva fatto anche un disco con te e Alvin che era Il Bestiario, no?
E anche un altro, vediamo se questo lo conosci… Muraglie.

Mi manca! Lei non uscì con Ananda, giusto?
No, con Ananda uscì I Canti del Capricorno, uscì Il Giardino Magnetico di Alvin e Prima Materia.

Pubblicità

E un paio di altre cose di Scelsi.
Ah, poi nel gruppo entrò anche Nicola Bernardini! Che adesso insegna musica elettronica al Santa Cecilia. Essenzialmente eravamo noi. Vuoi parlarmi di questi sette anni? Com'è andata la realizzazione del disco? La fondazione dell'etichetta Ananda è stata un'esperienza più o meno contemporanea a Prima Materia, giusto?
Sì, dopo un po' abbiamo pensato "perché non facciamo un disco?" e anche Giacinto non aveva sbocchi al momento, e ci siamo detti "creiamo un'etichetta".

Scelsi era molto più anziano di voi, giusto?
Sì, però eravamo molto amici. Spesso provavo a casa sua, parlavamo… E ci trovammo ad avere delle idee simili, nella nostra poetica.

Io lo amo molto. L'hai conosciuto bene, no?
Lo conobbi prima ancora di fare canto armonico, quando suonavo il clarinetto. Suonai anche un paio di pezzi suoi per clarinetto. Mi ricordo che andai a casa sua con Giancarlo Schiaffini che poi suonò i suoi pezzi per trombone… Insomma ci cominciammo a frequentare. Lui era uno che gli telefonavi e andavi a trovarlo, stava sempre a casa. Una delle cose migliori che posso dire di lui è che forse tra tutte le persone che ho conosciuto era quello più disposto ad ascoltare di tutto: gli portavi qualsiasi cosa e lui la sentiva. Poi magari non gli interessava, però la sentiva.

Allora c'era questa scena romana un po' underground, Beat 72, cose così… Lui aveva il suo autista, si faceva portare la sera, andava al concerto… Era un po' una figura di riferimento per tanta gente, molti musicisti anche stranieri che passavano da Roma erano sempre i benvenuti a casa sua per fare musica, per parlare, per sentire qualcosa… Il canto armonico fu un link molto forte tra di noi, perché anche lui cercava qualche cosa del genere, ovviamente: basta che senti un po' la sua musica, tendeva verso quello. L'idea di musica su una nota sola… è un po' questo. Spesso provavamo da lui, si parlava… Adesso poi c'è la fondazione che fa concerti, a Roma, a casa sua.

Pubblicità

Alla fine, volendo, Quattro Pezzi su Una Nota Sola già anticipava tante cose.
Sì, sicuramente. Anche l'idea di una musica che non ha né principio né fine. Tu la metti su un disco, quindi ritagli quei trenta minuti o quello che è, però in realtà è uno stralcio di un flusso continuo. È un'idea molto antica: l'idea della musica delle sfere, c'è un flusso continuo di cui noi sentiamo dei pezzetti.

Anche La Monte Young ha applicato quell'idea lì: tu ascolti settanta minuti, ma potrebbero essere cominciati in qualsiasi momento…
C'è anche l'idea che fu espressa poi come "futuro antico", che per me fu molto importante. Per me, cresciuto nella tradizione di avanguardia classica, musica colta, per certi versi è un po' come mettere in musica la rivoluzione industriale: il progresso è il nuovo. Ci vuole il nuovo a tutti i costi, quindi prima impara a suonare il violino in un certo modo, poi lo suoni capovolto, poi gli strappi le corde… Però dev'esserci sempre questo consumo continuo no? A un certo punto io non ne potevo più di quest'idea qui. "Non può essere", mi dicevo, "la musica non può essere questo, dover bruciare sempre tutti i ponti".

E fui anche molto influenzato dalla lettura di un libro di Renato Poggioli, Teoria dell'Arte d'Avanguardia. Lui diceva che non a caso nelle avanguardie storiche i termini che si usano sono tutti termini miltareschi, "bisogna fare la guerra al passato!" … Ma io non voglio fare la guerra al passato! Il passato mi va benissimo, soltanto che è contemporaneo. È anche un'idea diversa del tempo: il tempo è un unico, è tutto insieme. E poi, non avevo niente contro i musicisti classici o chi faceva musica antica. Era proprio un'idea del tempo diversa, non so se mi spiego.

Pubblicità

Con Prima Materia il nostro programma consisteva essenzialmente di due, a volte tre lunghe improvvisazioni. Cose forse impensabili adesso. Parlo di pezzi di mezz'ora, 40 minuti. Io non so se devo giudicare Prima Materia dai risultati… Forse non è un tipo di giudizio molto interessante, per me. Ho vissuto Prima Materia un po' come fare tabula rasa e ripartire da capo, come un preludio alla musica. In questo senso vicino a John Cage, per esempio.

L'hai conosciuto?
Sì, abbastanza bene. E ho suonato per il suo sessantesimo compleanno a Berlino. Adesso non voglio passare per eretico, però lui—che era una persona squisita, sia chiaro—per me non è un musicista. È stato importantissimo perché ha resettato un po' l'orecchio, io penso che i suoi libri, Silence, A Year from Monday… Bisognerebbe leggerli a scuola, già dalle elementari.

Lo apprezzi più come teorico, diciamo.
Lo apprezzo come figura di difficile definizione, che comunque ti fa riflettere e ti dà un'esperienza diversa. Io ho suonato molti suoi pezzi ed è sempre stata un'esperienza interessante, però lui stesso diceva "io non sono un musicista", e nessuno lo ha mai accettato questo. In realtà io penso che fosse vero. Quello che è successo dopo Prima Materia… È come se in quegli anni avessimo approntato i materiali. Abbiamo lavorato anche molto su di noi. Dopo di che bisognava ricominciare a fare musica. E il mio lavoro dopo è andato un po' in questo senso. Anche col canto armonico, a me interessa per esempio (anche con i gruppi che ho avuto dopo) creare un repertorio di canto armonico, per cui posso mandare una partitura a Sidney o a Copenaghen e c'è un gruppo che la può rifare. Ovviamente con margini di differenza, ma ricreare una tradizione. Non soltanto fare tabula rasa.

Pubblicità

Non può essere — mi dicevo. — La musica non può essere questo, dover bruciare sempre tutti i ponti.

Capisco. Quindi possiamo dire che per te l'importanza di Prima Materia ha un po' oscurato quello che è venuto dopo?
Sì. Mi piacerebbe che si conoscessero di più le cose che ho fatto dopo. Anche perché poi, alla fine, c'è poco da fare: avrò vissuto tutto questo in modo anche eversivo allora, però io sono un compositore. Mi piace comporre.

E con Prima Materia avete fatto solo improvvisazione.
Sì. Non parlavamo mai prima, però c'era una specie di nostra tradizione improvvisativa, era un po' l'idea di avvicinarsi al centro del suono, come se fosse un mandala.

Ai tempi ti scrisse una lettera addirittura Marius Schneider, l'etnomusicologo.
Varie lettere! Ci siamo scritti parecchio. Perché anche lui mi disse che aveva un po' quest'ideale della prima materia sonora. Che poi è la serie degli armonici, che lui mi raccontò (io non l'ho mai sentita) che aveva fatto realizzare con delle onde sinusoidali, cose di questo genere. Non credo che gli fosse piaciuto molto il disco di Prima Materia… Penso lo considerasse un po' troppo caotico. E non mi stupisce [Ride], però comunque fu una bella cosa.

Come venne recepito, con Prima Materia, il fatto che degli occidentali si dedicassero a una disciplina tradizionalmente legata ad altre culture? E voi stessi come vivevate la questione? Vi ponevate il problema?
Per me quello che facevamo non apparteneva a nessuna cultura particolare. Voglio dire, non basta fare un po' di canto armonico per fare musica tibetana o altro. Quanto alla "ricezione", quelli più infastiditi erano i critici italiani, che tra l'altro erano quelli che meno di tutti conoscevano le musiche dell'Oriente. Ad esempio Zurletti sulla Repubblica definì un nostro concerto "una tibetanata alla Stockhausen" (!), e Pestalozza, su Rinascita, in occasione della nostra partecipazione al festival di Nuova Consonanza, ci dedicò circa due terzi della recensione (dedicata all'intero festival di ben due settimane), dicendo che lui non aveva nemmeno voluto ascoltarci, ma additandoci al pubblico ludibrio perché ci vestivamo di bianco e sedevamo per terra, e paragonandoci tra l'altro ai Beatles e a Ravi Shankar (!) come esempi da non seguire. Era la cosiddetta estetica dello "straniamento" ripresa da György Lukacs, per quanto mi riguarda una delle più grosse stupidaggini adottate dalla sinistra ufficiale di allora. Per me Prima Materia non era né oriente né occidente, ma un'altra cosa. Sono gli anni di Prima Materia quelli in cui hai conosciuto anche Pandit Pran Nath?
No, lui l'ho conosciuto prima, a San Diego. Feci un corso con lui di musica indiana. Con lui e Terry Riley che suonava le tabla.

Pubblicità

Madonna!
Be', io mi sono sempre sentito molto vicino a Terry, come musicista. Per me è un musicista fantastico.

Siete ancora in contatto?
Ogni tanto ci sentiamo. Quando faccio un disco glielo mando, cose così. Poi ho usato questa sua citazione sul mio sito:

"Roberto Laneri has had a life long penchant for the droning mysterious of the Sound Current". 

C'è una sua citazione anche nella ristampa di Prima Materia. Mi è sempre piaciuto molto il suo approccio. Perché è un approccio serio, costruttivo, alla musica. Quindi è improvvisazione, sì, però è un'improvvisazione costruttiva, non è un'improvvisazione casuale.

Pran Nath rientra invece nel capitolo musica indiana, che è poi un'altra cosa che mi ha influenzato molto. Io ho fatto quel corso con lui, poi dopo quando sono venuto a Roma ho studiato con Salamat Ali Khan, pakistano. Che conoscemmo io e Susan a Berlino, era anche lui al Metamusik Festival. Mi ricordo aveva la stanza d'albergo vicino alla nostra, sentivamo queste musiche fantastiche, e stavamo sempre con l'orecchio attaccato al muro… Lui era un grandissimo musicista, uno dei più grandi che abbia mai conosciuto, in assoluto. Lo portammo a Roma e gli organizzammo varie serate alla sala Borromini, poi ogni tanto quando lui veniva a Londra andavamo a fare lezione da lui. Il suo era un approccio molto diverso da quello di Pandit Pran Nath e devo dire mi piaceva anche molto di più. Per me era un musicista eccezionale, uno di quelli come John Coltrane… Una tecnica spaventosa. Con la voce faceva tutto. E questa era la parentesi musica indiana.

Pubblicità

Con Alvin Curran avete fatto un percorso comune, avete fondato un'etichetta insieme (Ananda).
Il disco di Prima Materia lo registrò lui tra l'altro. Per un periodo suonammo anche insieme, lui aveva questo suo programma che si chiamava Mosaici.

Tu non hai mai fatto parte del nucleo un po' allargato di MEV?
Non ci ho mai suonato in senso stretto. Però poi ho suonato con Frederic Rzewski, abbiamo fatto L'Attico, il Metamusik di Berlino… Ma io rispetto a loro ero piccolo! [Ride] Erano le prime cose che sentivo, e poi quando ho cominciato a essere musicista io si stavano un po' già disgregando.

Però andavi a vedere a Trastevere le cose che organizzavano, che immagino fossero abbastanza scioccanti…
Sì, sarà stato il '64, '65. C'era anche Steve Lacy… assolutamente: cose mai viste prima. Ero amico un po' con tutti. Poi ho rivisto anche Richard Teitelbaum, Allen Bryant che da allora ha vissuto un po' come un eremita a Trastevere. Ognuno poi ha avuto i suoi percorsi… E c'è stata una diaspora. Con Alvin ci sono stati sempre molti, molti screzi. Sia sul piano musicale che sul piano personale, quindi penso sia inutile andare a tirare fuori cose. Però, insomma, non abbiamo più collaborato né niente, siamo proprio su posizioni molto diverse.

L'etichetta ha fatto poche uscite però davvero di spessore, direi.
Penso di sì, spero di sì. [Ride] Passando al post-Prima Materia, anche i tuoi dischi degli anni Ottanta secondo me meriterebbero una riscoperta.
Prima Materia ebbe una fine abbastanza traumatica, perché anche legata a fattori personali, essenzialmente la separazione dalla mia compagna. Così ognuno andò un po' per la sua strada e io cominciai a lavorare da solo, oppure su cose preregistrate. C'era questo pezzo di ascolto veramente molto duro, si chiamava Gya Gya Gya, che è un termine tibetano, che durava 45 minuti—devo averlo fatto due o tre volte, poi non più.

Pubblicità

E poi ho cominciato a farmi un piccolo studio, come tutti, come ho tuttora. E quindi feci Memories of the Rainforest. È essenzialmente un omaggio a quella che per me è una delle grandi musiche dell'umanità, quel poco che ne è rimasto. Anche lì si tratta di musica abbastanza scritta.

Il brano più importante è quello omonimo, a cui ho lavorato moltissimo, per me è un pezzo di minimal music, ispirato molto all'Africa. E c'è anche molto contrappunto, che è un'altra cosa che mi interessa particolarmente. L'ultimo, "Air", è un brano che mi piacerebbe molto rifare ogni tanto, perché mi è sempre piaciuto molto.

Prima ancora c'erano stati Two views of the Amazon e Anadyomene, no?
Sì. Two views per la Wergo. Una facciata era questo lungo pezzo vocale, che occasionalmente rifaccio ancora, un po' cambiato… Lo realizzai alla Rias di Berlino, che era una stazione radio che ora non esiste più purtroppo, dove si faceva molta musica di questo tipo perché il direttore era sempre Walter Bachauer. Molto spesso capitava che facevo delle cose e volevo registrarle, allora facevo una telefonata a Berlino: "mi fate venire lì? tra un mese sono pronto a registrare una cosa". Insomma: ti pagavano e ti trovavi una buona registrazione. Two views l'ho fatto così: andai in studio, preparai vari loop e poi li mixammo insieme e ci cantai sopra. Ricordo una cosa molto buffa, a proposito: quella che diventò la direttrice della Rias quando Bachauer purtroppo si suicidò voleva presentarlo al Premio Italia, per la Germania. Mi venne da ridere perché al Premio Italia non sanno nemmeno chi sono…

Pubblicità

L'altra facciata erano due pezzi strumentali, uno lo eseguo ancora, forse mi piacerebbe farne una versione nuova. Si chiama Rhapsody in Pink, per sax. A quel tempo suonavo il sax, con influenze appunto un po' jazzistiche e un po' indiane. È un omaggio alla musica indiana, essenzialmente, una specie di meta-raga, possiamo dire. L'altro disco invece, Anadyomene, fu una commisione dell'Ismez - "istituto qualcosa musica del mezzogiorno", una cosa del genere - aveva a che fare col festival di Roccella Jonica, Rumori Mediterranei. Ci fu questa cosa per cui Gianfranco Salvatore (ora critico jazz) scrisse un libro sull'archetipo delle conchiglie nel Mediterraneo, e io misi in musica questi testi di Poliziano sul tema della nascita di Venere. Quindi ne venne fuori questa… più che un'opera direi un musical, perché ci sono arie, penso anche abbastanza orecchiabili, un po' come certi musical americani degli anni Cinquanta e Sessanta [Ride]. L'ho fatto qualche volta, l'ho fatto anche a Orvieto in teatro non tantissimi anni fa. Ma uno non può neanche stare dietro a tutto.

Negli anni successivi, un sacco di altri progetti.
L'altra musica di cui non abbiamo parlato, che per me è molto importante, è tutta la parte jazz - musica afroamericana, in accezione molto larga. Anche perché quella è la prima musica che ho sentito da piccolo, a parte la radio a onde corte, che veramente mi diceva delle cose. E appunto c'è stato un periodo in cui sono stato molto connesso, sia con la scena free di allora, sia successe che andai in India, per una cosa molto bella, organizzata dal Goethe Institut di Bombay, un East-West Music Encounter, sarà stato l'81 o l'82.

Pubblicità

Quindi ci fu un po' un ritorno al jazz?
Sì, ma non se n'era mai andato davvero. Questo East-West Music Encounter fu veramente molto bello: quindici giorni a Bombay con sessioni di studio, presentazione dei nostri lavori la mattina e il pomeriggio… C'eravamo tutti, c'era Terry Riley, c'era Peter Hamel, c'era Michael Vetter, c'ero io… tutte queste persone che ruotavano intorno a quella musica. E la sera ognuno faceva il suo concerto. Lì conobbi un promoter di musica jazz che organizzava il festival di Bombay, e l'anno dopo portai questo ottetto, o forse dieci persone, Memory Rainbow si chiamava, in cui c'era Giancarlo Schiaffini, c'era Stefanie Wolff che poi era la mia compagna di allora e suonava il pianoforte, tedesca, c'era Christian Bollmann che conoscerai adesso per il canto armonico ma che suonava la tromba, il flicorno. C'era Ettore Fioravanti, Paolo Damiani al basso…

E suonammo un po' in giro… Poi come spesso succede, non è tanto facile tenere tutte queste cose insieme. Poi ognuno ti ricorda per una cosa sola: "ah ma non sapevo che facessi anche canto armonico", "non sapevo che suonassi anche il sax"… Insomma nella mia mente tutto sta insieme, ma poi in pratica promuoverlo e sostenerlo non è così semplice, per cui a un certo punto ho lasciato andare un po' tutta questa scena jazzistica.

Mi interesserebbe molto invece rientrarci adesso, proprio l'altro giorno a Roma ho debuttato il mio nuovo quartetto di jazz, Winds of change, un quartetto fantastico secondo me, sto cercando occasioni per suonare.

Pubblicità

Come sei finito a suonare in un disco di Peter Gabriel?
Quello per me è stato veramente un episodio. Era molto buffa questa cosa, perché io non conoscevo molta musica rock, ma nemmeno adesso. Però avevo un'amica a Berlino che era stata sposata con uno di questi della scena rock di Berlino, non mi ricordo nemmeno come si chiamasse. E lei era molto amica di tutti, conosceva Steve Winwood, conosceva bene Peter, e altri. Mi parlava di questi che io non conoscevo proprio, e una volta mi disse "ma io se vuoi do il tuo nome a Peter, forse ti chiamerà".

Un giorno ricevo una telefonata "Hello, this is Peter" "Peter who?" e siccome quell'anno, mi pare fosse l'82, avevo in programma una vacanza in Inghilterra, volevo andare in Scozia, fino a Findhorn, lui mi disse "ho sentito Bettina Hols, mi ha detto che tu sarai più o meno in Inghilterra" "penso di sì" "allora perché non passi da me?" Successe così. Rimasi lì qualche giorno, registrammo qualche pezzo.

Devo dire che fu una bella esperienza, ma per me un po' manipolatoria. Non perché lui lo fosse, ma perché era la musica di quel periodo che funzionava così: ti campionavano e poi ci facevano quello che gli pareva, senza nessun controllo da parte tua. Infatti se io risento quel disco [Peter Gabriel 4, NdR] ho difficoltà a ritrovarmi, a capire cosa ho fatto veramente. E devo dire anche che non ho poi sentito il bisogno di continuare quell'esperienza, o di entrare in quel mondo. Ci siamo sentiti qualche volta, scambi di saluti. Ma non è la mia musica, ecco. Questo per me è molto chiaro.

Pubblicità

A un certo punto in Occidente c'è stata la rottura, il divorzio tra struttura e stati di coscienza. Quindi la musica classica europea ha un sacco di struttura, ma non provoca più stati alterati, non ti mette più in trance.

Parallelamente a questa carriera da musicista c'è un lavoro sia di scrittura che di insegnamento. Ho letto che il libro La Voce dell'Arcobaleno è diventato un punto di riferimento per il mondo del canto armonico.
A un certo punto ho sentito il bisogno di rendere accessibili tutte le informazioni che avevo raccolto sul tema, in modo un po' serio. Perché mi era capitato nel frattempo di leggere qualche altra cosa qua e là e francamente era da mettersi le mani nei capelli. Non mi interessa leggere un libro in cui mi raccontano che "si dice che i monaci tibetani facciano questo"… no, non mi interessa il "si dice"! Ci ho messo le mie esperienze. Tutto quello che c'è in quel libro sono cose serie.

È uscito nel 2002, l'ho scritto nei due o tre anni prima, essenzialmente. Nel frattempo facevo e faccio tutt'ora seminari di canto armonico e, ti dirò… A me francamente non interessa diffondere il canto armonico. Non penso che sia per tutti. Non penso che il mondo sarebbe migliore se milioni di persone facessero il canto armonico. Forse. O forse no. Insomma, non è questo che mi interessa. Ma questo è un lungo discorso, e forse esula un po' da qui… Ha un po' a che fare con l'idea di progresso. Noi oggi bene o male pensiamo che "più è meglio": più persone suonano il basso tuba e meglio è per il mondo del basso tuba…

Pubblicità

Non lo so. Io penso che i nodi vengano al pettine proprio quando si parla di discipline olistiche, che dovrebbero avere una visione diversa. Non ha senso, per esempio, riguardo allo yoga. Lo yoga è una buona cosa, su questo non ci piove. Ma, anche qui: non è detto che tutti debbano fare yoga. E in una prospettiva yoga vera non ha senso dire "tutti dovrebbero farlo". Non è una religione.

Però, certo, se qualcuno cerca di interessarsi a qualcosa, è giusto che trovi materiale.
Assolutamente. Ne ho scritti due di libri: La Voce dell'Arcobaleno è quello dove c'è un po' tutto, diciamo così, più da lettura, anche. Poi c'è Nel cielo di Indra che è più un libro di pratiche. E risponde a un'esigenza: qual è il problema del canto armonico? Tu fai un seminario, in due giorni impari a fare dei suoni, impari delle tecniche. Dopodiché cosa ci fai? È il problema di tutti. Ideale sarebbe trovare delle persone con cui praticare. E questo libro è stato scritto per dare delle pratiche, infatti c'è anche un cd con cui cantare insieme. Questa era l'esigenza. Quando sono tornato dagli Stati Uniti nel '75 ho cominciato subito a insegnare al Conservatorio, da quattro anni non insegno più, sono in pensione, che è uno stato di coscienza bellissimo [Ride].

Insegnavi clarinetto, giusto?
Sì. E anche questo è un po' un problema. Ho cominciato a insegnarlo in un momento in cui veramente ero molto dentro allo strumento, e suonavo pezzi di musica contemporanea, suonavo Boulez, queste robe qua: suoni doppi, tripli, studiavo tantissimo… Poi a un certo punto questa musica ha cominciato a interessarmi sempre di meno, quindi diventava sempre più difficile, non mi sentivo più un clarinettista. E avrei dovuto e voluto insegnare composizione, avendo due lauree in composizione negli Stati Uniti. Però—perché l'Italia è così—non furono ritenute idonee dal Conservatorio italiano, quindi andò così…

Invece insegnare canto armonico mi piace sempre. Perché mi trovo come dire in un ambiente protetto, un ambiente ristretto, di persone che sono molto motivate, se sono lì. Lì il problema è un altro: essenzialmente insegno in due tipi di situazioni: tipo scuola di yoga, in cui tu parli del suono primordiale e non c'è problema, poi usi un termine come ottava e tutti piombano nel panico perché non sono musicisti; oppure in un Conservatorio e c'è la cosa contraria: quando parli dell'energia tutti ti guardano male. [Ride] In fondo per tutta la musica che ho fatto, se dovessimo individuare uno scopo, sarebbe proprio quello di mettere insieme queste due cose: a me piace la musica e mi piace l'energia [Ride]… Mi piacciono tutte e due le cose, non mi piace separarle!

Se penso al canto armonico in Occidente probabilmente il primo nome che mi viene in mente, oltre al tuo, è quello di David Hykes. Cosa ne pensi del suo lavoro? Avete avuto modo di confrontarvi, conoscervi, collaborare?

Di Hykes mi piace molto il primo lavoro, Hearing Solar Winds, un po' meno gli altri. Questo perché trovo la sue tecnica (e del suo gruppo) troppo compassata e limitata, nel senso che osa troppo poco. Avrai notato che io tendo a spingermi in regioni spesso difficilmente catalogabili e definibili.

Detto questo credo ci sia rispetto reciproco. Lui mi mandò a suo tempo Hearing… con una bella dedica, dicendo che entrambi eravamo nello stesso flusso, o qualcosa del genere. Che, venendo da lui che dice di essere l'unico a fare "overtone singing" e che tutti gli altri lo copiano, è abbastanza notevole.

A me piace la musica e mi piace l'energia… Mi piacciono tutte e due le cose, non mi piace separarle!

Riguardo quanto dicevi sulla diffusione di teorie, tecniche, e della musica, però una cosa un po' curiosa è che ho visto che negli anni l'hai portata anche in posti inusuali, come la televisione con il Maurizio Costanzo Show o il programma Rai con D'Amato.
La ricerca dell'Arca.

Esatto. Ho visto dei video su YouTube.
Guarda, "portata"… Non è che abbia voluto portarla io, mi invitarono. Sul Maurizio Costanzo Show stenderei un velo molto pietoso…

Di quello non ho visto video.
Be' non ti sei perso niente. Veramente una situazione molto poco congeniale.

Scarso rispetto?
È dir poco. D'altra parte la gente come Costanzo non ha rispetto per nessuno, sono interessati soltanto alla battuta spicciola e all'audience, tramutando tutto in un fenomeno da baraccone. Nella stessa puntata c'era anche Marina Malfatti che invece era molto interessata e voleva approfondire delle cose con me e lui praticamente la zittì abbastanza rudemente.

Invece fu molto bella l'esperienza con Mino D'Amato. Innanzitutto quello era veramente un bellissimo programma, ti assicuro. Lui era una bellissima persona, proprio curiosa, appassionata… Capitò che avevo un'amica che leggeva il Tg3 allora, una sera passai a prenderla a via Teulada, passò Mino D'Amato nel corridoio e lei disse "ah Mino, conosci Roberto Laneri?" "No, che cosa fa?" "Ah, fa dei suoni, fagli sentire…" E lui "benissimo, settimana prossima vieni in trasmissione?" Andò così. Due volte: dopo la prima mi disse "be' non mi basta, facciamolo ancora".

Un'esperienza invece di cui non abbiamo parlato è In forma di cristalli.
In forma di cristalli è il gruppo di canto armonico che ho avuto per vari anni, sei o sette, cominciato perché ho ottenuto un corso al conservatorio di Firenze, un corso annuale, ovviamente non pagato [Ride] dove ho conosciuto delle persone molto brave. Poi c'erano delle altre persone a Roma quindi eravamo in otto: quattro di Firenze e quattro di Roma. Provavamo separatamente e poi ogni tanto ci mettevamo insieme e facevamo una specie di ritiro, un po' di giorni. Cristalli è un buon nome perché è stata un po' la cristallizzazione di queste pratiche di canto armonico, quello che io vedo come il superamento della pratica dell'improvvisazione eterna di Prima Materia. Questa invece la vedo come una vera e propria forma musicale: sono pezzi, che hanno anche ampio margine per l'improvvisazione—per carità—però sono pezzi scritti. E adesso c'è questo nuovo gruppo che si chiama Nel cielo di Indra, riprendiamo un po' quel modo di far musica lì. Quei pezzi e altri ancora.

Suoni anche il didgeridoo.
Lo conosco dal '72 circa, perché a San Diego c'era questo mio collega australiano che mi regalò il mio primo strumento, mi insegnò anche un po' a suonarlo—facemmo parecchi concerti insieme, anche in Australia. Per molto tempo avevo questo strumento a casa però non lo suonavo, sapevo farlo ma non lo suonavo; anche la mia respirazione circolare non era proprio il massimo. Nel 2000 mi venne questo flash, "adesso ho il tempo per farlo", e da allora lo suono molto.

Non sono un esperto, ma nel tuo modo di suonarlo ho notato un approccio diverso da quello tradizionale, e quasi jazzistico. Sbaglio?
Per quanto mi riguarda pratico quasi soltanto esercizi tradizionali, ma quando suono cerco di integrare il tutto nella mia musica. La musica tradizionale aborigena è troppo importante per essere presa alla leggera. Vorrei aggiungere che, per quanto ne so, nessuno in occidente la sa fare veramente. Una cosa è usare dei suoni che possono essere imitazioni passabili degli stili aborigeni, un'altra anche soltanto capirne la musica—che tra l'altro credo sia una delle più difficili del mondo. Mi piacerebbe che da quello che faccio trasparisse almeno il rispetto per questa tradizione.

Abbiamo parlato dell'importanza dello stato di trance. mi chiedevo che cosa ascolti a casa per rilassarti, cosa riesce a provocarti quelle sensazioni, o anche in generale che cosa ti piace ascoltare. Sia magari in passato che oggi.
Questa è forse la domanda più difficile, nel senso che io ascolto quasi tutti i generi, comprese le cose fuori dai generi. Faccio prima a dirti le cose che non ascolto: la musica leggera (in particolare odio i cantautori italiani), il melodramma (soprattutto quello italiano e francese, perché poi adoro Wagner, Mozart e Kurt Weill) e la musica cosiddetta new age. Una delle mie musiche preferite è la musica aborigena australiana autentica (ce n'è arrivata pochissima).

Per chiudere vuoi dire qualcosa sul presente?
Per venire al presente io ho questo live che si chiama Breath, che mette insieme un po' di questi aspetti, il sax, il didgeridoo, il canto armonico…

Poi il gruppo di canto armonico Nel cielo di Indra, sviluppo un po' recente; e questo quartetto di jazz, Winds of Change, che ha debuttato due sere fa a Roma, con musicisti veramente fantastici. Sono pezzi miei. È difficile descrivere la mia musica per me… Contrabbasso, pianoforte, voce, io a volte suono anche il didgeridoo, e suono sax sopranino, soprano, contralto, clarinetto basso. Spero che riusciremo a girare un po'.

Manca qualcosa? Una ricapitolazione, il senso del tuo fare musica.
Quello che è successo è che a un certo punto in Occidente c'è stata la rottura, il divorzio tra struttura e stati di coscienza. Quindi la musica classica europea ha un sacco di struttura ma non provoca più stati alterati, non ti mette più in trance.

Allora mi piacerebbe che il senso del lavoro che faccio fosse di riportare la coscienza nella struttura e la struttura nella coscienza. Mi pare abbastanza. Segui Federico su Twitter:@justthatsome