Roma darche

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Roma darche

Ho sempre trovato curioso il seguito che una sottocultura come quella goth continua a vantare in Italia. Ne ho parlato con Dino Ignani, che tra il 1982 e il 1985 ha fotografato la comunità dark romana.

Tutte le foto per gentile concessione di Dino Ignani.

Ho sempre trovato curioso il seguito che una sottocultura come quella goth—nata in Inghilterra e per definizione algida, esangue, irrimediabilmente plasmata dai cupi furori del romanticismo nordico—continua a vantare in Italia. Voglio dire, noi italiani al goth siamo talmente affezionati che gli abbiamo pure cambiato nome: come tutti sanno, alle nostre latitudini il termine di riferimento è dark, e questo sin dagli albori del fenomeno (cioè fine anni Settanta). Perché mai un paese solare, cattolico, mediterraneo e caciarone come il nostro ha subito tanto il fascino delle tenebre, dei lugubri panorami evocati ai tempi da formazioni come Bauhaus e Siouxsie and the Banshees? Che ci sia qualcosa dietro?

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Potrà sembrarvi una domanda scema, ma è più o meno lo stesso interrogativo che nel 2012 si poneva la riverita Los Angeles Review of Books quando, per mano del critico Alan Williamson, analizzava un autore come Giacomo Leopardi: “Gli italiani sono sempre sembrati, agli occhi dei nordeuropei e degli americani un popolo caldo, amichevole e sensuale, capaci di godersi la vita; e non è un’impressione sbagliata. Quindi è come minimo interessante che siano tanto devoti a un poeta tanto pessimista come Leopardi.” In effetti anche Montale e Pavese, proseguiva Williamson, “sono dark.” Quindi capite, è una storia che viene da lontano. Ma non divaghiamo.

Torniamo ai goth italiani, insomma ai dark. Dino Ignani è un fotografo che nella Roma dei primissimi anni Ottanta entrò in contatto coi seguaci di Siouxsie & co che cominciavano a popolare la Capitale. Tanta era la curiosità per queste giovani, nerovestite e perché no innocenti creature, che verso la fine del 1981 decise di ritrarle una a una nei luoghi e nei locali in cui erano soliti ritrovarsi: più che la mappatura di un nuovo fenomeno urbano, una schedatura vera e propria. Trenta e passa anni dopo, da quel lavoro sono nate due mostre (una a Roma e una a Milano) e un libro—giustamente intitolato Dark Portraits—in uscita per l’editore Yard Press. Ho incontrato Dino e l’ho intervistato.

VICE: Come e quando è nato il tuo rapporto con la comunità dark romana?
Dino Ignani: Era il 1980. Frequentavo un’enoteca di Trastevere chiamata Fidelio, un classico ritrovo per artisti, perdigiorno, chiacchieroni di vario tipo… A un certo punto, alla tipica fauna del locale si aggiunsero i dark. Erano una decina in tutto, giovanissimi, diciamo tra i 18 e i 22 anni. Io ero molto più grande, avevo superato i 30, della musica dark non sapevo nulla, figuriamoci della moda. Però questi ragazzi mi incuriosivano, e per farla breve tra me e loro nacque una simpatia. Cominciai a informarmi, a seguirli nei loro spostamenti, finché un giorno mi venne l’idea di fotografarli nei locali che frequentavano. Uno scatto a testa, in angolini che mi venivano messi a disposizione dagli stessi gestori dei club. Da lì è nato un archivio di oltre 550 foto che poi, ridotto di circa la metà, è diventato Dark Portraits.

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Che locali erano, e dove si trovavano?
Il martedì si andava al Supersonic, nel quartiere Prati. Il mercoledì all’Olimpo in piazza Rondanini, vicino al Pantheon. Il giovedì magari all’Angelo Azzurro, che stava a Trastevere. Poi cominciava il weekend: il venerdì era il turno del Black Out, zona San Giovanni; il sabato allo Uonna, in periferia, sulla Cassia. E poi la domenica al Piper. Quindi vedi, tutta la settimana era praticamente coperta.

Che tipo di posti erano?
Fondamentalmente erano posti dove si andava a ballare. Per me era un’esperienza nuova, perché venivo da un retroterra completamente diverso: come ti ho detto ero parecchio più grande, nel 1968 avevo diciotto anni e per buona parte dei Settanta sono stato risucchiato dal clima del periodo, e quindi collettivi politici, comuni, manifestazioni… Per anni mi sono barcamenato tra lezioni di camera oscura e incontri-studio sul marxismo; la stessa idea di “andare a ballare” era un concetto considerato borghese e quindi in quanto tale da condannare, roba da non crederci. Cioè, ai tempi mi era piaciuto tantissimo frequentare posti come il Beat 72 [il locale nato nel 1965 come culla dell’underground sperimentale romano], ma un locale come il Uonna per esempio era tutt’altro universo; liberatorio, anche.

Era anche un periodo particolarmente felice per Roma, almeno in termini di… ahem, creatività.
Sì, c’era stato il movimento del ’77 e poi il punk, la rivista Frigidaire, ma anche esperienze come l’Estate Romana di Renato Nicolini… Finiti gli anni di piombo si ricominciava a uscire di casa, a frequentare i quartieri, a ballare. I dark mi affascinavano perché trasmettevano una grande sensazione di creatività: si confezionavano i vestiti da soli, compravano gli abiti ai mercatini dell’usato e poi li modificavano in casa, si tagliavano i capelli in modo insolito… Erano tutti modi di riappropriarsi di una sfera individuale che prima del ’77 era stata sacrificata in nome dello slogan “il privato è pubblico”, capisci? Poi dal punto di vista estetico i dark erano incredibili, specie per un fotografo come me: le bare, i candelabri… era tutto molto performativo.

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Ma che tipo di persone erano questi dark? Voglio dire, mi hai detto che erano perlopiù giovani tra i 18 e i 22 anni, ma a parte questo?
Molti di loro venivano dalle periferie, dall’hinterland, qualcuno dai Castelli: perché il dark romano è stato un fenomeno molto popolare, di borgata, direi proprio proletario. C’era anche una forte componente omosessuale: lo stesso Angelo Azzurro era un locale gay, e tra i dark potevi trovare personaggi come Luciano Parisi, che poi negli anni Novanta è stato tra gli animatori di Muccassassina [celebre serata LGBT]; all’epoca la comunità omosessuale era ancora abbastanza disorganizzata, quindi la mia idea è che il dark abbia rappresentato una specie di primo spazio aggregativo, vai a sapere. A livello politico c’era di tutto: destra, sinistra, andavi al Uonna e potevi incontrare sia lo skinhead neonazista sia l’omosessuale truccato, il che ti dice bene di quanto fosse cambiata l’atmosfera rispetto agli anni Settanta, quando si passava il tempo a bruciare le sedi dei fascisti e se per caso ti invitavano a una cena dovevi prima premurati che la casa fosse “di compagni”.

Girava tanta droga? Te lo chiedo perché stiamo comunque parlando degli anni del riflusso e dell’esplosione dell’eroina…
No, droga zero. Al limite un bicchiere di vino. Se capitava di ubriacarsi era quasi sempre per caso, non è che l’obiettivo fosse lo sballo. Erano ragazzi creativi ma molto… morigerati, ecco.

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La serie di ritratti che compone Dark Portraits si interrompe al 1985. C’è un motivo per cui hai smesso proprio allora?
I motivi sono diversi. Innanzitutto ero preso da altri progetti. Poi erano anche cambiati i tempi, erano cominciati gli anni della Milano da bere, di quello che Roberto D’Agostino (altro frequentatore delle serate dark) chiamava edonismo reaganiano. E infine, molto semplicemente il fenomeno dark si era affievolito. Gli stessi ragazzi che avevo ritratto per anni erano cresciuti, si erano trovati un lavoro, chi era diventato fornaio, chi era partito per Londra…

Sei rimasto in contatto con loro? 
Con diversi di loro sì. Qualcuno ha anche fatto strada: c’è chi è diventato stilista per Fendi, chi è diventato pittore, chi produce accessori per il Teatro dell’Opera, chi è finito in televisione… Alcuni invece sono semplicemente scomparsi, inghiottiti dalla vita di tutti i giorni, dalla normalità.

C’è qualche personaggio a cui sei rimasto particolarmente affezionato?
Fammi pensare… Klarita e Rebecca erano forse la coppia più famosa della comunità. Monichetta confezionava dei vestiti molto belli, li faceva da sola, era bravissima. E poi c’era Rossella, che era praticamente la mascotte della scena. Era una donna che all’epoca aveva già 55, 60 anni, un tipo piuttosto marginale, considera che viveva in una roulotte. Di solito veniva evitata e scansata da tutti, ma invece la comunità dark la adottò subito, spontaneamente. Fu accolta con molta simpatia, la gente le offriva da bere (anche se lei chiedeva al massimo una Coca Cola), tutti la coccolavano… Perché quello dark era un ambiente molto inclusivo, aperto. Voglio dire, hanno accolto pure me, con tutto che avevo dieci anni di più e che vestivo in un modo che non c’entrava niente col loro.

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Dark Portraits Rome 1982 - 1985 è edito da Yard Press.

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