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A8N8: Sei del deserto e non lo sai

Justin Broadrick

Godflesh, Napalm Death, Techno Animal e Jesu: intervista a uno dei musicisti inglesi più prolifici e indecifrabili degli ultimi vent'anni.

Foto di Paolo Teta.

Sarebbe tutto così semplice se si potesse spiegare Justin Broadrick a chi non lo conosce descrivendo con una, massimo due, etichette di genere la sua produzione. Invece, in vent’anni di carriera, Justin non ha fatto altro che prendere qualunque genere gli sia passato sottomano per poi ibridarlo con gli altri generi a disposizione: punk, metal, techno, hip-hop, dub… Li ha presi, brutalizzati, fatti a pezzi e riassemblati in ogni progetto che ha portato avanti—nei Napalm Death come nei seminali Godflesh e Techno Animal, nelle esperienze da solista e nelle collaborazioni, e nei più “pacifici” e recenti Jesu. Quest’attitudine lo ha reso negli anni sia un maestro, che una figura impossibile da decifrare. Anche in una semplice chiacchierata, sentirlo confessare sentimenti atroci rimanendo tranquillo e sorridente è a dir poco straniante. L’ho incontrato in occasione di una data italiana dei “riattivati” Godflesh, impaziente di chiedergli lumi su questa reunion così inaspettata. In realtà mi sarebbe piaciuto intervistare anche “Benny” Green, l’ancora più enigmatica altra metà della band, che ha invece preferito starsene per i cazzi suoi, col risultato che non sono riuscito a strappargli più di un paio di domande. VICE: Prima di oggi vi avevo visti live solo una volta a Barcellona. Quello che mi ha stupito è quanto suonaste autentici. Voglio dire, dopo anni di Jesu mi ero convinto che certe atmosfere pesanti e rumorose non ti interessassero più, anche se Disconnected, il disco del “supergruppo” Greymachine a cui hai partecipato due anni fa, fu una bella botta. Cos’è cambiato?
Justin Broadrick: In un certo senso è stato proprio lavorare a quell’album che mi ha fatto venire voglia di riportare in vita i Godflesh. Ha fatto da catalizzatore per certe energie. Mi ero immerso davvero tanto nel progetto Jesu, con cui ho fatto uscire una quantità abnorme di dischi. Il mio scopo era evitare di ripetermi, di ficcare la testa sotto la sabbia e trasformarmi in una caricatura di me stesso, cosa che mi stava succedendo negli ultimi periodi di vita dei Godflesh. Detto questo, credo sia praticamente ovvio che tutta la musica che faccio abbia origine in un posto davvero oscuro, ecco. Vale anche per Jesu, nonostante sia musica più introspettiva. Quello era il suono di una definitiva rassegnazione, mentre i Godflesh erano opposizione, protesta. Una protesta contro se stessi, però. Non credo di avere un’attitudine più positiva che in passato, sia nei confronti di me stesso che della condizione umana in generale. Sono invecchiato, per cui dovrei essere anche più maturo, saggio e tutte quelle stronzate là… Effettivamente ho imparato un sacco di cose dalla vita, ma non sono ancora riuscito ad accettare la condizione umana e la sua fragilità, la frustrazione continua dell’esistenza. Insomma, penso che avrò sempre bisogno di qualcosa in cui esprimere tutta questa rabbia, questo caos. Jesu non bastava più. E dire che ascoltando Jesu, e leggendo alcuni dei testi, avevo quasi l’impressione che fossi, non voglio dire “in pace con te stesso”, semmai in una condizione in cui niente aveva più importanza.
Sì, credo ci sia stato un periodo in cui mi ero convinto che le cose stessero così. Un anno o due, che non a caso sono stati anche il miglior periodo di Jesu. Mi sentivo molto a mio agio con quel progetto e dove mi stava portando, ma quella rabbia di cui ti parlavo prima rimane sempre a ribollire sotto la superficie. E dire che io non avrei mai voluto che andasse a finire così: trovarmi a quarant’anni a suonare pezzi scritti quando ero praticamente un adolescente è praticamente una regressione. Infatti mi sembra di ricordare qualche tua vecchia intervista in cui dicevi: “sarei ridicolo a urlare ‘you breed… like rats’ a quarant’anni.”
Esatto. E ne ero assolutamente convinto. Poi però ho fatto, anzi abbiamo fatto, un disco come Greymachine, e mi sono di nuovo innamorato dell’idea di perdere il controllo. Ho capito che stavo “sbagliando” e che avrò sempre bisogno di suonare qualcosa di violento e oscuro, come assalto contro me stesso. Non sarò mai soddisfatto della musica che faccio né della persona che sono. Come artista avrò sempre bisogno di esaminare certe parti della mia anima, e i Godflesh sono lo strumento più efficace. Il concetto di “io”, di individualità, è sempre stato una parte fondamentale della tua produzione, e non solo nei Godflesh. Ma nei tuoi testi c’è sempre una forte ambiguità tra la necessità di affermarlo vincendo le oppressioni, oppure di portarlo verso l’annichilimento.
Penso che l’autodistruzione sia qualcosa di radicato in me, nel mio modo di pensare. Durante la mia vita mi sono sforzato di reinventarmi tante volte, in modo traumatico. Ho il dito sempre sul bottone dell’autodistruzione. Spesso questi traumi hanno avuto effetti anche sulle persone che mi erano vicine. Ce l’ho nel sangue: mio padre era così e come lui diversi altri membri della mia famiglia. Credo di essere fortunato, se non altro, a poter esorcizzare tutto questo tramite la musica. Non ho la più pallida idea di cosa avrei fatto nella vita, altrimenti. Sono una di quelle persone per cui la distruzione è un bisogno spirituale. Ho intervistato Michael Gira qualche tempo fa, e mi ha parlato anche lui di cose simili.
Davvero? Direi che non mi stupisce. Gli Swans sono stati un’enorme influenza, ovviamente. Negli anni Ottanta erano una delle mie band preferite. Li ho ascoltati per la prima volta nel 1984, avevano appena pubblicato Cop, e mi sono immediatamente reso conto che quella musica aveva qualcosa da dirmi. Aveva dentro qualcosa di trascendentale, oltre i limiti, non era semplicemente brutale e regressiva. Gli Swans sono stati importanti nel formare il mio modo di vedere le cose. Allo stesso modo i Killing Joke hanno avuto pari importanza. Anche loro sono sempre stati sull’orlo dell’autodistruzione, in senso letterale: si sciolgono una volta all’anno, fanno un sacco di casini. Sì, Jaz Coleman ogni tanto va fuori di testa e sparisce.
[ride] Appunto, vedi… [A questo punto Benny riemerge dalle tenebre, e colgo l’occasione per fare un paio di domande anche a lui.] Benny, mentre Justin ha portato avanti una miriade di progetti musicali, tu negli ultimi dieci anni sei stato praticamente in silenzio. Cos’hai fatto tutto questo tempo?
Benny Green: Ho lavorato come assistente sociale, con tossicodipendenti condannati ai servizi socialmente utili. È completamente diverso dal suonare, ma è un lavoro che mi piace.

Justin, una volta, molto tempo fa, hai affermato che il tuo film preferito era Alien, che guardandolo eri arrivato a empatizzare con l’alieno e che lo consideravi un esempio di libertà totale. La pensi ancora così?
Justin Broadrick: Quando ho detto quelle cose ero molto giovane, e mi pento di alcune cose che ho detto. Alien rimane il mio film preferito in assoluto, non solo per via del mostro ma più in generale per l’atmosfera, il senso di solitudine, di claustrofobia, la sensazione di venire attaccati da qualcosa di così spontaneo e determinato, capace di introdursi nel tuo corpo. È questo a ispirarmi rispetto nella creatura, ha un che di nietzschiano. Io rispetto la natura molto più degli esseri umani e delle città che costruiscono, per questo ho scelto di vivere in campagna, vicino all’oceano e lontano dalle grandi città. Non che viva in una capanna sull’albero, ma è sicuramente molto diverso dalle case popolari di Birmingham in cui sono cresciuto. Aspetta, ora credo di stare divagando un po’ troppo… Non c’è problema. Il discorso sulla purezza è interessante, considerato che Pure è anche il titolo di un album dei Godflesh. Cos’è la purezza per voi?
Justin Broadrick: Anche noi ci siamo posti questa domanda nel momento in cui abbiamo intitolato l’album, e si parla di vent’anni fa, ma credo di poter parlare per entrambi quando dico che siamo ancora e da sempre alla ricerca di qualcosa, e non tramite la religione. Abbiamo sempre tentato di capire quale fosse la fonte di ogni cosa. Ne stavamo parlando giusto l’altra notte, nessuno di noi due è mai riuscito ad arrendersi al caos, la convinzione che ci sia qualcosa di più puro alla base di tutto è troppo radicata in noi. C’è sicuramente qualcosa oltre la realtà che percepiamo, ma non è sicuramente Gesù Cristo o un cazzone con la barba bianca in cielo, e immagino che tutte le persone intelligenti si rendano conto che voler comprendere la forza motrice dell’universo non implica per forza buttarsi sulla religione. Quindi, quando abbiamo scelto quel titolo, neanche noi sapevamo attribuire un significato preciso a quella parola, ma ci interessava il fatto che avesse così tante sfaccettature. Per la verità, ai tempi eravamo così depressi da potere spesso pensare che la nostra forma più pura ed essenziale fosse la merda [ride]. Non è molto lontano dalla verità, se ci pensi: è lì che andiamo a finire quando schiattiamo. Benny, l’unico album che hai composto extra-Godflesh è stato con un progetto chiamato V.I.T.R.I.O.L.. Immagino che anche in quel caso ci fosse un qualche tipo di ricerca spirituale, visto che “V.I.T.R.I.O.L.” è l’acronimo del principio fondamentale dell’alchimia.
Benny Green: Sì. Ero alla ricerca di qualcosa, non sapevo esattamente cosa e non volevo chiamarlo “dio”. Mi interessano aspetti di tutte le religioni, ma non ne seguo nessuna. Stavo cercando me stesso, e lo studio dell’alchimia mi ha dato molto perché è concentrata sulla natura, insegna che dio è dentro tutte le cose e non da qualche parte fuori. V.I.T.R.I.O.L. era un progetto di musica rituale, mi aiutò molto a concentrarmi sui miei scopi. Al tempo vivevo in montagna, in isolamento. [Detto questo, Benny sparisce e non si farà più vedere fino all’inizio del concerto.] Uno dei movimenti culturali degli anni Novanta, quando i Godflesh erano attivi, è stato il cyberpunk. Sarebbe una banalità tracciare dei paralleli tra quelle tematiche e la vostra musica, che è letteralmente fatta dall’accostamento di macchine ed elementi umani. Al punto che se dovessi pensare a una colonna sonora per Neuromante di William Gibson, metà sarebbero pezzi dei Techno Animal e l’altra metà dei Godflesh.
Justin Broadrick: La cosa veramente ironica è che, a oggi, né io né Benny abbiamo letto nessun libro di William Gibson. Il dualismo uomo-macchina lo abbiamo ereditato più da altre cose che ci appassionavano da ragazzini, come i dipinti di H.R. Giger. Quando ho visto per la prima volta Alien avevo circa 12 anni, e qualche anno dopo mi sono andato a cercare tutte le sue pubblicazioni, come Necronomicon. L’idea delle forme di vita biomeccaniche ci ispirava molto, aveva qualcosa in comune col metal che ascoltavamo ma anche con i nostri stessi sentimenti. Davvero, Neuromante non l’ho mai letto, anche se molta gente mi ha detto esattamente la stessa cosa che hai detto tu. Eravamo più influenzati da Giger e dai romanzi di J.G. Ballard. Ora viviamo in un’epoca in cui molte delle previsioni del cyberpunk si sono avverate, specie il fatto che non c’è più una contrapposizione tra sentirsi alienati e sentirsi parte della società.
È proprio così! Ti dirò, per me l’alienazione è qualcosa di assolutamente normale. L’ho sempre sentita anche nei confronti di me stesso, e credo faccia parte del bisogno autodistruttivo di cui ti parlavo prima. Non mi sono mai sentito davvero parte di qualcosa, neanche delle scene o delle sottoculture a cui la mia musica è stata accomunata nel corso del tempo. Non è per fare l’arrogante, ma anche quando i Godflesh si erano appena formati la gente ci vedeva come “quelli strani”. Ai tempi del primo disco siamo andati in tour con Napalm Death e altre band grindcore “classiche”, e mentre suonavamo, la gente ci tirava addosso di tutto, non riuscivano a capire perché cazzo usassimo una drum machine o perché suonassimo così lento. Insomma, ci sentivamo degli alieni, si torna sempre a quello. Ma l’uso della drum machine fu per necessità o per una scelta precisa?
Fu una scelta, ma dettata dalla necessità di controllare tutto. Prima che formassimo i Godflesh suonavo la batteria, ma avevo davvero voglia di tornare alla chitarra e, allo stesso tempo, di usare i beat che io avrei suonato se fossi stato il batterista della band. D’altro canto, volevamo anche che i nostri dischi suonassero come l’hip-hop, visto che andavamo matti per Rakim, Public Enemy, Run DMC e tutta quella roba là. All’epoca il rap non si era ancora mescolato con niente di rock, figuriamoci con roba rumorosa e deviata come la nostra, però noi volevamo dei beat massicci come quelli che sentivamo in quei dischi, volevamo quel suono e quel tipo di produzione. Il suono della batteria nel rock era ancora troppo “piccolo” per i nostri gusti, ci serviva qualcosa di potente che suonasse come una macchina, e non come l’imitazione di un batterista vero. Quando hai iniziato a suonare musica prevalentemente elettronica, non solo con Godflesh e Techno Animal ma anche tutta la musica techno e drum & bass “normale” che hai prodotto nella seconda metà degli anni Novanta, ti interessava che fosse ballabile o aveva altri scopi?
Già coi Godflesh avevamo campionato gli Humanoid nel pezzo “Slavestate”. Negli anni Novanta prendevamo un sacco di acidi e un sacco di ecstasy, andavamo a molti rave. Quella cultura era particolarmente sviluppata in Inghilterra, specialmente a livello underground. Anche in quel caso ci siamo innamorati dell’idea di avvicinare due mondi così apparentemente lontani: acid house e metal. Fu proprio attraverso la droga e andando a ballare che ci appassionammo a quei suoni, oltretutto siamo sempre stati interessati al ruolo del corpo, al modo in cui reagisce alla musica. Per cui volevamo fare della musica con cui la gente potesse sia ballare che annichilirsi. Era sempre frutto della nostra passione per gli ibridi. Alcuni di noi lavorano ancora in quel campo, prendi le cose che fa Kevin Martin [suo ex-socio nei Techno Animal] con The Bug e King Midas Sound o il mio nuovo progetto, JK Flesh. Quindi JK Flesh è frutto di un rinnovato interesse per quei suoni?
A dire il vero, gran parte di quel disco è roba vecchia di otto anni. Materiale che avevo lasciato in sospeso dai tempi dei Techno Animal in un momento in cui volevo dedicarmi a Jesu e Kevin era più interessato a sviluppare The Bug. Avevamo la sensazione di esserci spinti fin dove potevamo, e non ci era andato molto giù il modo in cui l’album Brotherhood Of The Bomb era stato accolto, eravamo convinti che avrebbe avuto un impatto maggiore. Col senno di poi era ovvio che le cose andassero così, perché era l’ennesimo disco fuori dagli schemi, ma al tempo credevamo che avrebbe aperto la strada all’hip-hop del futuro. In realtà le cose sono andate così, non tanto nell’hip-hop, quanto nell’elettronica. Senza pionieri come voi o Scorn, oggi non ci sarebbe la dubstep.
È vero. Questo perché molti degli iniziatori della dubstep ascoltavano la nostra musica. Certo, ce n’erano anche alcuni che non lo facevano, immagino che Mala o Coki non ci conoscessero. Penso più a Distance, Vex’d, e simili: loro si sono assolutamente ispirati a noi ed erano piuttosto giovani quando suonavamo quelle cose. Ora è diventata un fenomeno mondiale e fa per lo più cacare, come accade a un certo punto a tutto ciò che diventa popolare. Ad ogni modo, credo che abbiamo avuto una parte nel costruire quel sound, soprattutto Kevin Martin che con The Bug è diventato a tutti gli effetti parte del genere, e con King Midas Sound esce per Hyperdub. Anche se Hyperdub è molto più di una semplice etichetta dubstep, hanno gente come Burial, che è fenomenale e trovo stupendo il fatto che sia così famoso. È un genio. Ma cos’è che ti fece avvicinare al dub? Anche in questo caso si tratta di un ibrido, un misto di tradizione e tecnologia.
È decisamente questo il motivo. Io e Kevin Martin abbiamo sempre subito il fascino della cultura dei soundsystem giamaicani, perché quella musica ci sembrava venire dal futuro, conservando un aspetto molto antico. Ovviamente, essendo di Birmingham, ho avuto a che fare con il dub fin da piccolo. È sempre stata una città multiculturale, ti poteva capitare facilmente di passare accanto alla finestra di qualcuno e sentire musica dub con bassi spropositati e odore di ganja. Ora non succede più, ed è un peccato. Adoro soprattutto la scena Rasta degli anni Settanta, mi ha sempre attratto il fatto che fosse musica spirituale e gioiosa, ma fatta di dense nuvole di suono. È magia pura. Tra le altre cose, le tue radici sono anche nella scena anarco-punk, nei Crass. Recentemente Penny Rimbaud si è scrollato di dosso i cliché stupidi che tanti “punk” hanno tratto dal loro esempio: lui vedeva le loro posizioni e la loro musica come qualcosa di più libero e spirituale, politicamente ma anche musicalmente. In questo senso, pensi che la tua musica post-Napalm Death sia politica?
Nella sua essenza, sì. Ovviamente sono d’accordo con il punto di vista di Penny Rimbaud. Quando vidi per la prima volta i Crass era il 1982 ed ero incredibilmente giovane. Fu travolgente, un vero bombardamento di proteste. Il palco era coperto di bandiere anarchiche e striscioni con tutti i loro slogan, e c’erano videoproiezioni. Erano un vero assalto ai sensi, capaci di suscitare riflessioni profonde, ma un po’ dogmatici, in fin dei conti. Comunque quel concerto mi cambiò la vita. Non sto scherzando, mi rese improvvisamente consapevole di quello che avevo intorno. Diventai immediatamente vegetariano e smisi di avere fiducia nelle autorità. Certo, dopo un po’ ho perso interesse per la scena perché era piena di gente che ci stava dentro per tutte le ragioni più sbagliate. Questo i Crass lo sapevano, ed è per questo che a un certo punto si sciolsero, la gente non poteva davvero capirli. Gruppi più aggressivi come i Conflict erano anche fighi, ma iniziarono a trascinarsi dietro tutto quel bullismo di strada che era l’esatto contrario di quello che predicavano i Crass. Ma Rimbaud è una persona intelligentissima e se ne rese conto.
Tornando alla tua domanda, direi che la nostra musica è politica, ma si tratta di una politica del corpo. Non c’è niente di dogmatico o infantile tipo “fuck the police”, e non si tratta di essere anti-qualcosa, semmai anti-noi stessi. Non siamo “noi contro loro” ma tutti insieme nella stessa merda. È la nostra stessa natura a fotterci, e la prima cosa da attaccare è il nostro io. Penso davvero che i Godflesh derivino direttamente dai Crass. Sul serio, senza di loro niente di tutto questo sarebbe stato possibile.